Il padre che non svolge alcuna attività a favore del figlio è inadempiente rispetto alla funzione tipica del congedo parentale di sostenere i bisogni affettivi e relazionali del figlio (al pari di quanto avviene nell’ipotesi di utilizzo da parte del lavoratore dei permessi per attività diverse dall’assistenza al familiare disabile – ex lege n. 104/1992).
Nota a Cass. 11 gennaio 2018, n. 509
Flavia Durval
Lo sviamento. La possibilità per il lavoratore (ai sensi del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, att. 32, co. 1, lett. b), di attuazione della L. Delega 8 marzo 2000, n. 53) di astenersi dal lavoro nei primi otto anni di vita del figlio, percependo dall’ente previdenziale un’indennità commisurata ad una parte della retribuzione, “configura un diritto potestativo che il padre-lavoratore può esercitare nei confronti del datore di lavoro, nonché dell’ente tenuto all’erogazione dell’indennità, onde garantire con la propria presenza il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un pieno inserimento nella famiglia; pertanto, ove si accerti che il periodo di congedo viene invece utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione propria del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività (nella specie, presso una pizzeria di proprietà della moglie) contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia”.
Il diritto potestativo. È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (11 gennaio 2018, n. 509) che, inquadrando il diritto al congedo parentale nella categoria dei diritti potestativi, conferisce al lavoratore un “potere diretto a creare, modificare, estinguere situazioni giuridiche con una manifestazione unilaterale di volontà, senza la partecipazione del soggetto che deve subirne gli effetti” (v. Cass. nn. 6586/2012 e 17984/2010). In altre parole, mediante l’esercizio di tale diritto, “il titolare realizza da solo l’interesse tutelato e a cui fa riscontro, nell’altra parte, una mera soggezione alle conseguenze della dichiarazione di volontà”. Senza che a ciò osti la previsione (nel momento genetico della concessione del beneficio) di un onere di preavviso “sia nei confronti del datore di lavoro, nell’ambito del contratto di lavoro subordinato, con la conseguente sospensione della prestazione del dipendente, sia nei confronti dell’ente previdenziale, nell’ambito del rapporto assistenziale che si costituisce ex lege per il periodo di congedo, con il conseguente obbligo del medesimo ente di corrispondere l’indennità” (v. Cass. n. 2803/2015).
Inoltre, l’esercizio del diritto al congedo non è riconducibile ad un potere assoluto e senza limiti, in quanto l’autonomia del fruitore del congedo parentale è collegata alla cura di interessi specifici come, nella specie, quelli familiari (tutelati sia nell’ambito del rapporto privato che in quello con l’ente pubblico di previdenza), il cui esercizio o non esercizio, secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione pure dall’ordinamento, può risultare abusivo.
La configurazione legale del congedo parentale come diritto potestativo non determina, quindi, una situazione di mera discrezionalità e arbitrio nell’esercizio del diritto medesimo e perciò non esclude la sindacabilità e il controllo degli atti da parte del giudice sulle modalità del suo esercizio nel suo momento funzionale (v. Cass. n. 16207/2008).
L’abuso del diritto potestativo. Si verifica, pertanto, un “abuso del diritto potestativo di congedo parentale, allorché il diritto venga esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di lavoro, ancorché incidente positivamente sulla organizzazione economica e sociale della famiglia; ma analogo ragionamento può essere sviluppato anche nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio in cui il genitore trascuri la cura del figlio per dedicarsi a qualunque altra attività che non sia in diretta relazione con detta cura, perché ciò che conta non è tanto quel che il genitore fa nel tempo da dedicare al figlio quanto piuttosto quello che invece non fa nel tempo che avrebbe dovuto dedicare al minore”.
La funzione della tutela della paternità. La tutela della paternità si risolve in “misure volte a garantire il rapporto del padre con la prole in modo da soddisfare i bisogni affettivi e relazionali del bambino al fine dell’armonico e sereno sviluppo della sua personalità e del suo inserimento nella famiglia; tutte esigenze che, richiedendo, evidentemente, la presenza del padre accanto al bambino, sono impedite dallo svolgimento dell’attività lavorativa (i.e. quella rispetto alla quale si chiede il congedo) e impongono pertanto la sospensione di questa, affinché il padre dedichi alla cura del figlio il tempo che avrebbe invece dovuto dedicare al lavoro” (v. Corte Cost. n. 104/ 2003, n. 371/2003 e n. 385/ 2005).
Le modalità dell’accudienza. Tutto ciò premesso, non si può pertanto ammettere un’accudienza soltanto indiretta del bambino (ad es. per interposta persona), con ciò offrendosi soltanto un contributo ad una migliore organizzazione della vita familiare, “poiché quest’ultima esigenza può essere assicurata da altri istituti (contrattuali o legali) che solo indirettamente influiscono sulla vita del bambino e che, in ogni caso, mirano al soddisfacimento di necessità diverse da quella tutelata con il congedo parentale, il quale non attiene ad esigenze puramente fisiologiche del minore ma, specificamente, intende appagare i suoi bisogni affettivi e relazionali onde realizzare il pieno sviluppo della sua personalità sin dal momento dell’ingresso nella famiglia” (Cass. n. 16207/ 2008).
Il rilievo dell’abuso per il datore di lavoro. Pertanto, secondo i giudici è particolarmente rilevante, e tale da legittimare il licenziamento del dipendente: a) sia il comportamento contrario “alla buona fede, o comunque lesivo della buona fede altrui”, nei confronti del datore di lavoro ingiustamente privato della prestazione lavorativa del dipendente; b) sia la lesione… dell’affidamento da lui riposto nel medesimo; c) sia “l’indebita percezione dell’indennità e lo sviamento dell’intervento assistenziale nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico” (Cass. n. 16207/2008, cit.).
Il parallelismo con i permessi per assistere il familiare disabile. Del resto, secondo la giurisprudenza, costituisce giusta causa di licenziamento l’utilizzo da parte del lavoratore dei permessi ex lege n. 104/1992 per attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso (Cass. n. 9749/2016; Cass. n. 5574/2016; Cass. n. 8784/2015). La legge, infatti, attribuisce al prestatore un beneficio che comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Non è pertanto consentito utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui è preordinato. La ratio del beneficio risiede nell’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile.
“Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto” (Cass. n. 17968/2016), o, secondo altra prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicuratore (anche ove non si volesse seguire la figura dell’abuso di diritto, che comunque è stato integrato tra i principi della Carta dei diritti dell’unione europea (art. 54), dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza europea: in termini v. Cass. n. 9217/2016)”.