Al lavoratore licenziato spetta la tutela reale di diritto comune.
Nota a Trib. Latina 8 febbraio 2018, n. 125
Francesco Belmonte
L’inefficacia del recesso per violazione del requisito di motivazione, di cui all’art. 2, co. 2, L 15 luglio 1966, n. 604, comporta, per i licenziamenti intimati nelle “piccole” imprese – prima dell’entrata in vigore del DLGS 4 marzo 2015, n. 23 – l’applicazione della tutela reale di diritto comune, secondo cui: “il recesso non produce effetti sulla continuità del rapporto, il quale deve essere considerato mai interrotto, con il conseguente obbligo da parte del datore di lavoro di reintegrare il dipendente nelle stesse mansioni ricoperte al momento del licenziamento. Il lavoratore ha altresì diritto al risarcimento del danno subito che deve essere quantificato, in mancanza di elementi che giustifichino una diversa maggiore o minore quantificazione, nella misura pari alle retribuzioni maturate dalla data della messa in mora (ndr: del datore) e sino alla sentenza” (si considerano “piccole imprese”, ai sensi dell’art. 2, co. 1, L 11 maggio 1990, n. 108, i datori di lavoro (imprenditori e non) che occupano alle loro dipendenze fino a 15 dipendenti – 5 per le imprese agricole -, ovvero fino a 60 su tutto il territorio nazionale).
A statuirlo è il Tribunale di Latina (8 febbraio 2018, n. 125) in relazione ad un licenziamento per ragioni oggettive dichiarato inefficace.
Per il giudice di merito, nel caso di specie l’inefficacia dell’atto datoriale deve ricondursi al tenore della ragione addotta a fondamento del recesso, che, per la sua genericità (“grave crisi economica che investe la società”), integra una violazione dell’art. 2, co. 2, L n. 604/66, in base al quale: “la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato.”
In particolare, secondo il consolidato orientamento della Cassazione (v., da ultimo, in questo sito, Cass. 26 giugno 2017, n. 15877, con nota di O. LANDOLFI, La motivazione del licenziamento), a cui aderisce il Tribunale di Latina, “la motivazione del licenziamento deve essere sufficientemente specifica e completa, ossia tale da consentire al lavoratore di individuare con chiarezza e precisione la causa del suo licenziamento sì da poter esercitare un’adeguata difesa svolgendo ed offrendo idonee osservazioni o giustificazioni, dovendosi ritenere equivalente alla materiale omissione della comunicazione dei motivi la comunicazione che, per la sua assoluta genericità, sia totalmente inidonea ad assolvere il fine cui la norma tende, senza nulla aggiungere circa la ragione della scelta di sopprimere specificamente il posto di lavoro cui era addetto il ricorrente”.
In tale ipotesi, all’inefficacia del recesso consegue l’applicazione nelle “piccole” imprese della tutela reale di diritto comune, in base alla quale il licenziamento “non produce effetti sulla continuazione del rapporto di lavoro” (con conseguente diritto del prestatore alla ricostruzione dello status quo ante il recesso datoriale), e non della disciplina sanzionatoria disposta dall’art. 8, L n. 604/66 (c.d. tutela obbligatoria), prevista per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo. “Tuttavia, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive, l’inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro, non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, bensì solo il risarcimento del danno da determinarsi secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni” (ex artt. 1218 e ss. c.c.). (In tale linea, si v. i principi espressi da Cass. 27 luglio 1999, n. 508, MGL, 1999, 1061, con nota di M. PAPALEONI, Area debole, vizi formali, regime applicabile. Contra, cfr., in dottrina, A. VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli, 44, secondo cui per i licenziamenti affetti da simili vizi troverebbe applicazione la tutela obbligatoria prevista dalla L. n. 604/66).