Il lavoratore che utilizzi un permesso sindacale retribuito per svolgere attività di interesse personale può essere legittimamente licenziato.
Nota a Trib. Santa Maria Capua Vetere, ord. 24 marzo 2018
Paolo Pizzuti
I permessi sindacali retribuiti non possono essere utilizzati per attendere a faccende personali estranee all’attività sindacale, pena il licenziamento in tronco.
È quanto affermato dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (ord. 24 marzo 2018), relativamente al recesso per giusta causa intimato da una società (difesa dall’avv.to F. Castiglione) nei confronti di un dipendente che (come emerso da una puntuale relazione investigativa), durante l’assenza in forza di un permesso sindacale retribuito, non aveva svolto la relativa attività, ma si era recato fuori regione per evidenti motivi personali ed estranei agli scopi per cui i permessi erano stati richiesti e riconosciuti.
Il giudice rileva che l’uso a fini personali di permessi sindacali retribuiti integra “abuso del diritto e si pone in aperta violazione dei fondamentali doveri di diligenza, buona fede e correttezza che devono essere rispettati nell’ambito di ogni rapporto di lavoro, sostanziandosi in una condotta che, per le concrete modalità di realizzazione, appare in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, configurando, dunque, un grave inadempimento degli obblighi attinenti al rapporto di lavoro che rende giustificata…la massima sanzione espulsiva”. La condotta, quindi, può essere sussunta fra quelle integranti la giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c.
I giudici richiamano, al riguardo, l’orientamento consolidato della Cassazione che, in tema di licenziamento per giusta causa, precisa che, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni comportamento che “per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro”, facendo ritenere pregiudizievole agli scopi aziendali la continuazione del rapporto di lavoro. In questo senso, infatti, è determinante la “potenziale influenza” della condotta del lavoratore “suscettibile per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza” (Cass. n. 2013/2012).
Il Tribunale osserva che, alla luce di queste affermazioni, nel caso di specie il comportamento del lavoratore, contrario agli obblighi di diligenza, lealtà e fedeltà che devono connotare la prestazione lavorativa, è stato particolarmente grave, riprovevole ed idoneo senz’altro a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento degli obblighi nascenti dal rapporto di lavoro in quanto sintomatico di un atteggiamento del lavoratore rispetto agli impegni assunti.
Nello specifico, il lavoratore ha violato l’obbligo di fedeltà che, sostanziandosi nell’obbligo di un leale comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, va “collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., con la conseguenza che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 c.c., ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso” (cfr., fra le tante, Cass. n. 21362/2013). Peraltro, il comportamento tenuto dal ricorrente, oltre che di oggettiva gravità, deve ritenersi consapevole, di modo che ricorre anche l’indispensabile elemento soggettivo del fatto giuridico disciplinarmente rilevante.
La sanzione, inoltre, è stata reputata adeguata e proporzionata anche alla luce del ccnl di categoria che contempla, fra le mancanze disciplinari, comportamenti del lavoratore che integrino “gravi infrazioni alla disciplina o alla diligenza nel lavoro”. Il fatto contestato, come noto, non deve corrispondere specificamente alle singole ipotesi di recesso senza preavviso tipizzate dalla contrattazione collettiva. La disciplina collettiva va infatti interpretata alla stregua della nozione di giusta causa contenuta nell’art. 2119 c.c. E, dal momento che tale nozione ha la sua fonte direttamente nella legge, il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo. Questo introduce soltanto “un’elencazione esemplificativa ed affatto tassativa delle ipotesi giustificative della massima sanzione di modo che anche i fatti non espressamente previsti, ove siano tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti, rientrano nella superiore norma dell’art. 2119 c.c. e possono legittimare il licenziamento senza preavviso. Muove in tale direzione anche l’art. 30 L. 4 novembre 2010, n. 183, secondo cui “Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro … “, formula che non vincola in modo rigido la valutazione giudiziale”.
Nel senso che “l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile (da valutarsi secondo i generali canoni di cui all’art. 2119 c.c.), a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore”, v. Cass. n. 6789/2018; Cass. n. 6606/2018; Cass. n. 2830/2016; Cass. n. 4060/2011; Cass., n. 5372/2004.