La destinazione del dipendente pubblico ad altre mansioni che comportino il sostanziale svuotamento della sua attività lavorativa è illegittima.
Nota a Cass. 21 febbraio 2018, n. 4228
Andrej Evangelista
Qualora il dipendente pubblico sia privato delle mansioni alle quali è stato a lungo adibito non si determina una dequalificazione professionale laddove le nuove mansioni assegnate in sostituzione siano comunque riconducibili nella declaratoria contrattuale di riferimento.
Il sistema delle mansioni nell’area pubblica contrattualizzata, come noto, è disciplinato non dall’art. 2103 c.c., bensì dall’art. 52, DLGS n. 165/2001, che attribuisce “rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita”. La norma, in particolare, non dà rilievo al c.d. bagaglio professionale del lavoratore e comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria contrattuale, in quanto equivalenti, sono esigibili.
Tuttavia, non è ammissibile, sia nell’impiego privato che pubblico, che la destinazione ad altre mansioni comporti il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa.
Il principio, consolidato in giurisprudenza, è stato riaffermato dalla Corte di Cassazione con sentenza 21 febbraio 2018, n. 4228 (v. anche Cass. n. 687/2014, n. 11405/2010, nonché n. 11835/2009).
Il lavoratore, infatti, deve essere messo in condizione di svolgere la propria prestazione in relazione alla mansione per la quale è stato assunto (v. Cass. 18 maggio 2012, n. 7963). “Tale affermazione si basa sulla considerazione della funzione svolta dal lavoro, che costituisce non solo un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche uno strumento di estrinsecazione della personalità del lavoratore. Sicché la disciplina degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell’impresa devono necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della persona che lavora” (Così, M.N. BETTINI, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Giappichelli, 2014, 55-56 e gli ampi richiami ivi). Nello specifico, lo svuotamento di mansioni è, al tempo stesso, lesivo del fondamentale diritto al lavoro di cui agli artt. 2, 4 e 35, co.1, Cost., intesi come libera esplicazione della personalità del lavoratore attraverso un bene (il lavoro) da tutelare “in tutte le sue forme”.
Il mancato rispetto di tali precetti costituisce un inadempimento contrattuale (anche nel pubblico impiego privatizzato) da parte del datore di lavoro (Cass. n. 7963/2012, cit.) e determina, oltre all’obbligo di corrispondere al prestatore le retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale.
L’ordine del giudice di far lavorare il dipendente costretto all’inattività non è suscettibile di esecuzione in forma specifica; il lavoratore, peraltro, potrà pretendere il risarcimento dei danni subìti. In proposito, Cass. 15 gennaio 2014, n. 687, cit., in un’ipotesi di dequalificazione di dipendente pubblico ha precisato che, in seguito alla sentenza delle Sezioni Unite (Cass. SU 11 novembre 2008, n. 26972), “la liquidazione del danno non patrimoniale deve essere complessiva e cioè tale da coprire l’intero pregiudizio a prescindere dai ‘nomina iuris’ dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento della anzidetta liquidazione. Tuttavia, sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie di danno biologico e danno morale continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in esame dal giudice al fine di dare contenuto e parametrare la liquidazione del danno risarcibile”.
La situazione di mora credendi permane finché il lavoratore continua a tenersi a disposizione dell’azienda offrendo la propria prestazione (Cass. 13 marzo 1997, n. 2232) e cessa con l’invito del datore di lavoro a riprendere servizio (Cass. 23 febbraio 1993, n. 2196).