L’avvocato che svolge la professione in due Stati membri dell’Unione è soggetto alla legislazione previdenziale dello Stato in cui risiede e svolge una parte sostanziale dell’attività.
Nota a Cass. 19 marzo 2018, n. 6776
Gennaro Ilias Vigliotti
All’attività di un professionista svolta sia nel Paese di origine che in altro Paese della Comunità Europea si applica la normativa previdenziale dello Stato membro di residenza ove è stata svolta una parte consistente dell’attività o, in mancanza, quella dello Stato in cui si trova il centro di interessi dell’attività (Regolamento (CEE) 29 aprile 2004, n. 883, del Parlamento Europeo e del Consiglio, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, come mod. dal Regolamento CEE 22 maggio 2012, n. 465).
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione 19 marzo 2018, n. 6776, che, cassando App. Milano 26 marzo 2012, ricorda che l’art. 21, L. 31 dicembre 2012, n. 247, ha introdotto l’obbligatoria iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, contestuale all’iscrizione all’Albo, ed il “regolamento attuativo, con disposizione riferita agli iscritti ad un Albo forense che esercitino l’attività professionale in modo concorrente o esclusivo in un altro Stato dell’Unione, ha espressamente richiamato” i Regolamenti comunitari nn. 883/2004 e n. 987/2009.
La Corte precisa inoltre che il Regolamento n. 883/2004, nell’ottica di garantire la parità di trattamento dei diversi soggetti occupati in uno Stato membro, stabilisce (art. 12, co.2) che: “La persona che esercita abitualmente un’attività lavorativa autonoma in uno Stato membro e che si reca a svolgere un’attività affine in un altro Stato membro rimane soggetta alla legislazione del primo Stato membro, a condizione che la durata prevedibile di tale attività non superi i ventiquattro mesi”; mentre, relativamente all’esercizio abituale dell’attività in due o più Stati membri, al di fuori della rigida temporaneità disegnata dal predetto art. 12, co. 2, dispone, al successivo art. 13, co.2, che: “La persona che esercita abitualmente un’attività lavorativa autonoma in due o più Stati membri è soggetta:
a) alla legislazione dello Stato membro di residenza, se esercita una parte sostanziale della sua attività in tale Stato membro;
oppure
b) alla legislazione dello Stato membro in cui si trova il centro di interessi delle sue attività, se non risiede in uno degli Stati membri nel quale esercita una parte sostanziale della sua attività”.
Tale disposizione, come si vede, dà prevalenza, alternativamente, alla legislazione (dello Stato membro) in cui il lavoratore ha la propria residenza qualora egli eserciti una “parte sostanziale” della sua attività nel suddetto Stato membro; ovvero alla legge dello Stato membro in cui viene svolta una “parte sostanziale dell’attività”.
Per la determinazione della residenza e del criterio dello svolgimento della “parte sostanziale” dell’attività, la Corte richiama:
– l’art. 11, Regolamento n. 987/2009, secondo cui: “ 1. In caso di divergenza di punti di vista tra le istituzioni di due o più Stati membri circa la determinazione della residenza di una persona cui si applica il regolamento di base, tali istituzioni stabiliscono di comune accordo quale sia il centro degli interessi della persona in causa, in base ad una valutazione globale di tutte le informazioni relative a fatti pertinenti, fra cui se del caso:
a) durata e continuità della presenza nel territorio degli Stati membri in questione;
b) la situazione dell’interessato tra cui:
i) la natura e le caratteristiche specifiche di qualsiasi attività esercitata, in particolare il luogo in cui l’attività è esercitata abitualmente, la stabilità dell’attività e la durata di qualsiasi contratto di lavoro;
ii) situazione familiare e legami familiari;
iii) esercizio di attività non retribuita;
iv) per gli studenti, fonte del loro reddito;
v) alloggio, in particolare quanto permanente;
vi) Stato membro nel quale si considera che la persona abbia il domicilio fiscale.
2. Quando la valutazione dei diversi criteri basati sui pertinenti fatti di cui al paragrafo 1 non permette alle istituzioni di accordarsi, la volontà della persona, quale risulta da tali fatti e circostanze, in particolare le ragioni che la hanno indotta a trasferirsi, è considerata determinante per stabilire il suo luogo di residenza effettivo”.
– e l’art. 14, co. 3 e 4, Regolamento n. 987/2009, per i quali: “3. Ai fini dell’applicazione dell’articolo 12, paragrafo 2, del regolamento di base, per persona «che esercita abitualmente un’attività lavorativa autonoma» si intende una persona che svolge abitualmente attività sostanziali nel territorio dello Stato membro in cui è stabilita. Più precisamente, la persona deve aver già svolto la sua attività per un certo tempo prima della data in cui intende valersi delle disposizioni di detto articolo e, nel periodo in cui svolge temporaneamente un’attività in un altro Stato membro, deve continuare a soddisfare nello Stato membro in cui è stabilita i requisiti richiesti per l’esercizio della sua attività, al fine di poterla riprendere al suo ritorno.
4. Ai fini dell’applicazione dell’articolo 12, paragrafo 2, del regolamento di base, il criterio per determinare se l’attività che un lavoratore autonomo si reca a svolgere in un altro Stato membro sia «affine» all’attività lavorativa autonoma abitualmente esercitata è quello della effettiva natura dell’attività e non della qualificazione di attività subordinata o autonoma attribuita eventualmente a tale attività dall’altro Stato membro”.
Circa, poi l’obbligo di comunicazione reddituale alla Cassa di previdenza (L. 20 settembre 1980, n. 576), i giudici richiamano le precedenti decisioni di Cass. SU 7 giugno 2012, n. 9184 e 19 novembre 2012, n. 20219.