Diversamente dal lavoratore subordinato, l’agente presta la propria opera autonomamente, organizza una struttura imprenditoriale e si assume il rischio per l’attività promozionale svolta.
Nota a Cass. 1 marzo 2018, n. 4884
Mariapaola Boni
«L’elemento distintivo tra il rapporto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato va individuato nella circostanza che il primo ha per oggetto lo svolgimento a favore del preponente di un’attività economica esercitata in forma imprenditoriale, con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da parte dell’agente, che si manifesta nell’autonomia nella scelta dei tempi e dei modi della stessa, pur nel rispetto – secondo il disposto dall’art. 1746 cod. civ. – delle istruzioni ricevute dal preponente, mentre oggetto del secondo è la prestazione, in regime di subordinazione, di energie lavorative, il cui risultato rientra esclusivamente nella sfera giuridica dell’imprenditore, che sopporta il rischio dell’attività svolta».
Queste, le parole della Corte di Cassazione 1 marzo 2018, n. 4884, in relazione al ricorso di una società che lamentava la mancata valorizzazione, da parte dei giudici di merito, a fini qualificatori come contratto di agenzia, di tre elementi: 1: la «comune volontà delle parti desumibile dal nomen iuris assegnato al contratto», 2: l’«esecuzione dello stesso per oltre dieci anni senza alcuna contestazione» da parte del prestatore, 3: la «compatibilità» degli indici sussidiari anche con lo schema contrattuale dell’agenzia.
Al riguardo, la Cassazione precisa che l’elemento distintivo tra il rapporto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato va individuato nella circostanza che il primo ha per oggetto lo svolgimento a favore del preponente di un’attività economica esercitata in forma imprenditoriale, con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da parte dell’agente. Questo tipo di attività si manifesta nell’autonomia della scelta dei tempi e dei modi della stessa, pur nel rispetto – secondo il disposto dall’art. 1746 c.c. – delle istruzioni ricevute dal preponente; diversamente, oggetto del lavoro subordinato è la prestazione mediante messa a disposizione di energie lavorative, il cui risultato fa capo esclusivamente alla sfera giuridica dell’imprenditore che sopporta il rischio dell’attività svolta.
La Corte, respingendo il ricorso, chiarisce che, “qualora non sia agevolmente apprezzabile l’indice sussuntivo primario dell’eterodirezione, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri criteri che, pur avendo carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria, prevalgono sulla qualificazione nominalistica del rapporto operata in quanto costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto”. Tali elementi sono, ad esempio, “la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, l’assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppur minima struttura imprenditoriale”.
I giudici di merito avevano altresì rilevato, quali indici sintomatici della subordinazione, “la sottoposizione del lavoratore, al pari dei dipendenti formalmente subordinati, a specifiche e vincolanti istruzioni per la gestione della clientela, a ripetuti richiami al rispetto delle procedure dettate, a turni di lavoro e feriali stabiliti unilateralmente dalla società; lo svolgimento dell’attività esclusivamente nei locali aziendali e con strumenti forniti dalla società; l’assenza di qualsiasi rischio imprenditoriale e della pur minima organizzazione in capo al lavoratore; la gestione contabile dell’attività di quest’ultima ad opera dell’ufficio amministrativo della società che predisponeva le fatture per il pagamento delle provvigioni”.