Al dipendente pubblico, assunto con contratto di lavoro a termine, non spetta l’aspettativa retribuita per conseguire un dottorato di ricerca.
Nota a Cass. 8 febbraio 2018, n. 3096
Francesco Belmonte
L’aspettativa retribuita, prevista per i dipendenti pubblici ammessi ai corsi di dottorato di ricerca senza borsa di studio, è riservata ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Ciò si desume dal riferimento, contenuto nell’art. 2, L 13 agosto 1984, n. 476 (come modificato dall’art. 52, co. 57, L 22 dicembre 2001, n. 448), alla prosecuzione del contratto di lavoro per una durata minima di due anni, dopo il conseguimento del titolo post-universitario.
A statuirlo è la Corte di Cassazione (8 febbraio 2018, n. 3096), in relazione ad una fattispecie attinente il riconoscimento dell’aspettativa retribuita ad un insegnante assunto per una supplenza annuale ed iscritto ad un corso di dottorato.
Il suddetto principio di diritto si fonda sull’interpretazione fornita dalla Corte dell’art. 2, L n. 476/1984 (novellato dall’art. 52, co. 57, L n. 448/2001), in base al quale: “… In caso di ammissione a corsi di dottorato di ricerca senza borsa di studio, o di rinuncia a questa, l’interessato (n.d.r. il pubblico dipendente) in aspettativa conserva il trattamento economico, previdenziale e di quiescenza in godimento da parte dell’amministrazione pubblica presso la quale è instaurato il rapporto di lavoro. Qualora, dopo il conseguimento del dottorato di ricerca, cessi il rapporto di lavoro o di impiego con qualsiasi amministrazione pubblica per volontà del dipendente nei due anni successivi, è dovuta la ripetizione degli importi corrisposti…”.
In particolare, per i giudici di legittimità, «la legge del 2001 ha previsto il diritto al trattamento economico per i dipendenti pubblici ammessi al dottorato di ricerca senza borsa di studio al fine di incentivare l’arricchimento del bagaglio culturale dei dipendenti stessi, a prescindere da soglie di reddito. Nello stesso tempo, però, il legislatore ha fissato un periodo minimo di due anni di permanenza nel posto di lavoro successivamente al conseguimento del titolo, in modo da consentire all’amministrazione di fruire delle conoscenze acquisite dal dipendente grazie agli studi post-universitari. La norma, quindi, “ha ritenuto di contemperare il diritto allo studio del pubblico dipendente con l’interesse della pubblica amministrazione, stabilendo, da una parte, l’incondizionata erogazione di un emolumento economico (la borsa di studio o la retribuzione) e dall’altra una condizione di stabilità del rapporto di pubblico impiego” che giustifica la deroga, per il periodo di svolgimento del dottorato, al principio generale di sinallagmaticità» (Così, Cass. n. 10695/2017).
«Sebbene la disposizione si riferisca al “pubblico dipendente”, senza ulteriori precisazioni, la ratio della norma porta a ritenere che il legislatore ne abbia voluto circoscrivere l’applicazione ai soli casi in cui l’ammesso al corso di dottorato sia legato all’amministrazione da un rapporto a tempo indeterminato, perché è proprio sulla stabilità che si fonda il contemperamento fra gli opposti interessi in gioco, tanto che è stata prevista come condizione risolutiva del beneficio la cessazione del rapporto stesso, ove intervenuta prima del compimento del biennio».
Di conseguenza, secondo tale impostazione, il dettato normativo “non garantisce la conservazione del trattamento economico, previdenziale e di quiescenza, anche all’assunto a tempo determinato”.
Simile lettura, non si pone in contrasto con il principio di non discriminazione fra assunti a tempo indeterminato e lavoratori a termine, previsto dalla clausola 4 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP allegato alla Direttiva 1999/70/CE, sulla scorta della costante giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Quest’ultima, infatti, con plurime pronunce, ha chiarito che «il divieto di trattamenti discriminatori nelle condizioni di impiego non opera qualora “la disparità di trattamento constatata sia giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti, che contraddistinguono la condizione di lavoro di cui trattasi, nel particolare contesto in cui s’inscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale disparità risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria. Tali elementi possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato, dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro” (in merito si v. Corte di Giustizia UE ord. 14 settembre 2016, C-16/15, ed i riferimenti ivi contenuti).
Secondo la Suprema Corte, siffatti “elementi concreti”, giustificanti una disparità di trattamento, sussistono in egual misura anche nella fattispecie in esame, in cui la supplenza di durata annuale risulta incompatibile con “le ragioni sottese alla norma che, presupponendo una stabilità minima del rapporto, escludono la piena comparabilità rispetto all’istituto in discussione del lavoratore a tempo determinato, qualunque sia la durata del contratto a termine, con il dipendente a tempo indeterminato”.