Per rinnovare o disdire il contratto aziendale non è necessaria la forma scritta.

Nota a Cass. 4 aprile 2018, n. 8379

Flavia Durval

L’accordo aziendale è valido anche se non è stipulato per iscritto; allo stesso modo, la disdetta degli accordi relativi al premio aziendale può essere manifestata oralmente dall’impresa (l’azienda, in quanto convenuto eccipiente, è però onerata, ai sensi dell’art. 2697, co. 2, c.c., della dimostrazione dell’esistenza d’una effettiva disdetta verbale espressa).

La libertà della forma dell’accordo o del contratto collettivo di lavoro va, infatti, “ravvisata anche riguardo agli atti che ne siano risolutori, come il mutuo dissenso (art. 1372, co. 1, c.c.) o il recesso unilaterale (o disdetta) ex art. 1373, co. 2, c. c.”. Quest’ultimo, in particolare, “pur non richiedendo formule sacramentali, nondimeno resta assoggettato agli stessi vincoli formali eventualmente prescritti per il contratto costitutivo del rapporto al cui scioglimento sia finalizzato” (v. Cass. n. 14730/2000 e Cass. n. 5454/1990).

In questo senso si è ripetutamente espressa la Corte di Cassazione (4 aprile 2018, n. 8379; n. 5601/2018 e n. 2601/2018).

I giudici hanno cassato App. Milano 14 dicembre 2012 che aveva negato efficacia alla disdetta degli accordi relativi al premio aziendale manifestata oralmente dalla società, stabilendo tre principi fondamentali:

“a) il principio di libertà della forma si applica anche all’accordo o al contratto collettivo di lavoro di diritto comune, di guisa che essi – a meno di eventuale diversa pattuizione scritta precedentemente raggiunta ai sensi dell’art. 1352 cod. civ. dalle medesime parti stipulanti – ben possono realizzarsi anche verbalmente o per fatti concludenti;

b) tale libertà della forma dell’accordo o del contratto collettivo di lavoro concerne anche i negozi connessivi, come il recesso unilaterale ex art. 1373, comma 2, cod. civ.;

c) la parte che eccepisce l’avvenuto recesso unilaterale è onerata ex art. 2697, comma 2, cod. civ. della prova relativa e, ove alla manifestazione orale segua, su richiesta dell’altro o degli altri contraenti, una dichiarazione scritta del medesimo tenore, è altresì onerata della prova del carattere meramente confermativo – anziché innovativo – di tale successiva dichiarazione”.

Nello specifico, uniformandosi alla decisione delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 3318/1995; v. anche n.11111/1997), la Corte ha sottolineato l’inesistenza di norme che prevedano, per i contratti collettivi, la forma scritta in applicazione del principio generale della libertà della forma, “in base al quale le norme che prescrivono forme peculiari per determinati contratti o atti unilaterali sono di stretta interpretazione, ossia insuscettibili di applicazione analogica”. In conformità, v. già Cass. n. 8083/1987, che aveva ritenuto valido il mandato, conferito con comportamenti concludenti, non essendo prevista la forma scritta ad substantiam per la stipulazione dell’accordo.

I giudici precisano che “non vale invocare gli artt. 2077 o 2113 c.c., l’art. 3 L. n. 741 del 1959, l’art. 425 c.p.c. od altre analoghe disposizioni in cui il testo scritto – non sancito a pena di nullità – è implicitamente presupposto a fini meramente ricognitivi”, in quanto, in ossequio al principio di libertà delle forme che deriva dall’art. 1325, n. 4, c.c. (e fermo restando che qualsiasi atto, per esistere nel mondo giuridico, deve pur sempre manifestarsi all’esterno ed assumere, quindi, una qualche forma, sia essa verbale, scritta, per fatti concludenti, etc.), è corretto parlare comunemente di forma libera, come regola, di forma vincolata, come eccezione.

Né pare invocabile l’art. 1351 c.c. (“applicabile solo quando una determinata forma sia stabilita dalla legge e non pure quando essa sia stata prevista dalle parti per un contratto per il quale la legge non dispone alcunché”, come rilevato da Cass. n. 3980/1981) o l’art. 1352 c.c. (dal momento che il vincolo d’una futura forma può, a sua volta, essere previsto solo per iscritto).

La Corte, poi, si sofferma ad analizzare un’altra questione, strettamente connessa alla prima, e che riguarda l’obiezione che la disdetta degli accordi de quibus, in quanto incidenti su diritti di soggetti terzi (i lavoratori dipendenti), dovesse essere loro comunicata, affermando che “la vincolatività degli accordi aziendali nei confronti dei lavoratori collettivamente considerati fa sì che costoro non possano considerarsi come terzi”.

Ciò, richiamando la consolidata giurisprudenza secondo cui “agli accordi collettivi aziendali si deve riconoscere (anche e soprattutto in ragione dei rinvii che plurime disposizioni legislative operano alla contrattazione aziendale) efficacia vincolante analoga a quella del contratto collettivo nazionale, trattandosi pur sempre non già d’una sommatoria di più contratti individuali, ma di atti di autonomia sindacale riguardanti una pluralità di lavoratori collettivamente considerati” (v. anche Cass. n. 27115/2017).

Il contratto aziendale, al pari di quello nazionale e di quelli di qualsiasi altro livello, introduce una “disciplina collettiva uniforme dei rapporti di lavoro, sia pure limitatamente ad una determinata azienda o parte di essa” (cfr., già, Cass. n. 3047/1985 e Cass. n. 1965/1982).

La contrattazione aziendale, inoltre, può derogare, anche in peius (per i lavoratori), al contratto collettivo nazionale (fatti salvi i diritti quesiti relativi a prestazioni già rese; v. Cass. n. 19396/2014), “non operando a riguardo l’art. 2077 cod. civ., che concerne esclusivamente i rapporti fra il contratto individuale di lavoro e quello collettivo” (cfr. Cass. n. 19396/2014, cit. e Cass. n. 6516/2002).

Contratto collettivo aziendale e rinnovo tacito
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