Le prestazioni lavorative rese per una associazione religiosa si presumono a titolo oneroso.
Nota a Cass., ord., 28 marzo 2018, n. 7703
Paolo Pizzuti
La presunzione di gratuità d’una prestazione lavorativa solo perché eseguita a vantaggio d’una associazione avente finalità di natura “lato sensu culturale o spirituale” non è ammissibile in quanto ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro si deve presumere come effettuata a titolo oneroso” (così, Cass. 20 febbraio 2006, n. 3602; diversamente, Cass. 7 novembre 2003, n. 16674, relativa all’attività svolta dal religioso nell’ambito della propria congregazione). L’attività stessa può essere ricondotta ad un rapporto diverso, istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione soltanto ove “risulti dimostrata in concreta la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa” (v. Cass. 3 luglio 2012, n. 11089 e Cass. 26 gennaio 2009, n. 1833).
Questo, il principio espresso dalla più recente giurisprudenza di Cassazione, in cui si inserisce l’ordinanza della Corte 28 marzo 2018 n. 7703, la quale precisa che “il rapporto di natura religiosa esistente tra i soggetti non è sufficiente a dimostrare la natura affectionis vel benevolentiae causa della prestazione resa, ma occorre dare la prova rigorosa che tutto il lavoro sia stato prestato per motivazioni esclusivamente religiose e non in adempimento delle ordinarie obbligazioni civilistiche”.
La fattispecie riguarda l’Associazione Federazione Damanhur, la quale, come chiarisce la Corte:
– non è un ente di culto avente personalità giuridica riconosciuta dallo Stato ex L. 24 giugno 1929, n. 1159 (e relativo regolamento di attuazione approvato con R. D. 28 febbraio 1930, n. 289; v. anche elenco degli enti di culto diversi dal cattolico dotati di personalità giuridica riconosciuti dal Ministero dell’interno ex art. 2 della stessa legge n. 1159/1929);
– né può qualificarsi come ente del terzo settore ai sensi dell’art. 4 del D.LGS. n. 117/2017 (c.d. codice degli enti del terzo settore, peraltro posteriore al ricorso introduttivo del giudizio de quo, il cui ultimo comma prevede l’applicabilità del D.LGS. medesimo agli enti religiosi purché civilmente riconosciuti – non è il caso della Federazione Damanhur – e “limitatamente allo svolgimento delle attività di cui al successivo art. 5 e previo adempimento di ulteriori formalità”).
Come noto, il D.LGS. n. 117/2017 (emanato in attuazione della delega per la riforma del terzo settore contenuta nella L. 6 giugno 2016, n. 106), ha riscritto le regole per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale (previa abrogazione della L. n. 266/1991 – legge quadro sul volontariato -, della L. n. 383/2000 – disciplina delle associazioni di promozione sociale -, e di una parte della L. n. 460/1997 – legge quadro sul volontariato – ), tenendo distinti gli enti religiosi civilmente riconosciuti (art. 4, co. 3) ed elencando gli enti del terzo settore: “le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del terzo settore (registro al quale la comunità in questione non è iscritta)” (art.4, co. 1).
Con specifico riferimento allo svolgimento di lavoro negli enti del terzo settore, osserva la Corte che neppure tale assetto legislativo – peraltro inapplicabile al caso di specie – gioverebbe alla tesi dell’associazione controricorrente. Si vedano infatti l’art. 16, che contempla il diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai ccnl di cui all’art. 51 del D.LGS. 15 giugno 2015, n. 81 e l’art. 18 sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento dell’attività di volontariato, nonché per la responsabilità civile verso i terzi.
L’associazione Damanhur potrebbe essere tutt’al più considerata, secondo i giudici, una “mera associazione non riconosciuta al pari di tante altre … qualificabile, al più, come organizzazione di tendenza lato sensu religiosa o culturale ex art. 4, co. 1, L. n. 108/90, il che rafforza la presunzione di onerosità della prestazione oggettivamente lavorativa resa al suo interno”, dal momento che tale previsione “riconosce la possibilità dell’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato alle dipendenze di organizzazioni di tendenza (chiari sono il riferimento ai “datori di lavoro” e la stessa regolamentazione delle conseguenze in caso di licenziamento inefficace o illegittimo) e rafforza la presunzione di onerosità di cui s’è detto, sicché grava sulla parte che ne sostenga la riconducibilità ad un rapporto diverso da quello subordinato, con correlativa gratuità della stessa attività, l’onere di una prova tanto più rigorosa di tale assunto quante volte siano provate anche erogazioni periodiche di denaro in favore del prestatore, per le quali quest’ultimo non è tenuto a dimostrare l’insussistenza di un titolo di altra natura, spettando invece all’altra parte la prova di una causa solvendi diversa da quella retributiva (cfr. Cass. 9 febbraio 1996, n. 1024; Cass. 28 marzo 1998, n. 3290; Cass.2 marzo 2004, n. 4255; Cass. 28 marzo 2017, n. 7925)”.
Peraltro, nella specie, “dalla stessa ricostruzione in fatto evincibile dalla sentenza impugnata è dato rilevare che vi era stata una prestazione lavorativa remunerata con determinate utilità (tali dovendosi intendere le c.d. monete damanhuriane spendibili all’interno della relativa comunità)”.
Viene pertanto cassata la sentenza della Corte di appello di Torino, secondo cui:
a) l’attività del prestatore era “svolta su base essenzialmente volontaria e senza vincolo di subordinazione, atteso che, in sostanza, il rapporto si era sviluppato, nella sua genesi e nel suo complesso, nel senso di una totale dedizione al perseguimento dei fini della comunità ed in tale contesto l’eventuale compenso corrisposto non era che l’adempimento di una obbligazione naturale”;
b) “l’opera svolta dal religioso nell’ambito della propria congregazione non costituiva prestazione di attività di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 2094 cod. civ., bensì opera di evangelizzazione religionis causa, così nel caso di adesione alla vita damanhuriana l’attività svolta dall’aderente e la ricompensa materiale ricevuta costituiva mero corollario o appendice di un complesso sistema di vita sociale che si occupava di tutte le esigenze dell’individuo che viveva in una comunità spirituale e familiare totalizzante, gestita come un piccolo stato, dove tutti gli aspetti della vita dell’associato sono condivisi e dove il singolo entra per contribuire con il proprio impegno e la propria attività al progresso spirituale e materiale della Comunità”.