L’utilizzo inappropriato del social network legittima il licenziamento.

Nota a Trib. Busto Arsizio 20 febbraio 2018, n. 62

Francesco Belmonte

I tweet pubblicati dal dipendente – qualora trascendano la mera e legittima critica ed esplicitino  un atteggiamento di disprezzo verso il datore di lavoro, di gravità tale da lederne l’immagine e determinare, di conseguenza, una lesione del vincolo fiduciario – legittimano il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Lo ha stabilito il Tribunale di Busto Arsizio (20 febbraio 2018, n. 62), in relazione alle frasi postate da un pilota sul social network twitter a danno della compagnia aerea presso la quale era impiegato.

Per il Tribunale, “è un diritto costituzionalmente garantito quello di esprimere il proprio dissenso rispetto alle opinioni e scelte altrui, ma i toni debbono comunque essere quelli di una comunicazione non offensiva né ingiuriosa se si intende restare nell’alveo di un dialogo, oltre che civile e costruttivo, legittimo.”

Nella specie, i tweet utilizzati dal dipendente, esprimendo un “disprezzo verso l’azienda e nei confronti dei suoi amministratori, rappresentanti e potenziali partner commerciali”, costituivano un uso improprio del social media di “gravità tale da ledere l’affidamento della società verso la leale e corretta prosecuzione del rapporto da parte del lavoratore” e legittimare il recesso datoriale.

Negli ultimi anni, sempre più spesso, i giudici si sono pronunciati circa l’utilizzo “disinvolto” dei social network da parte dei  dipendenti.

Si tratta, in particolare, di espressioni ingiuriose contro l’azienda, pubblicazioni di foto o comunque manifestazioni del pensiero che eccedono il diritto di critica, tali da incrinare inevitabilmente il vincolo fiduciario.

In merito, però, la giurisprudenza ha assunto posizioni contrastanti.

In particolare, per il Tribunale di Napoli (15 dicembre 2017, n. 8761), scrivere su facebook epiteti ingiuriosi nei confronti del datore di lavoro – amministratore unico, menzionandolo con nome e cognome – costituisce una giusta causa di licenziamento che giustifica la definitiva perdita di fiducia sulla corretta esecuzione dei futuri adempimenti.

Parimenti, secondo il Tribunale di Brescia (13 giugno 2016, n. 782, con nota di G. PIGLIALARMI, Rapporto di lavoro e social network: ancora un caso di licenziamento per violazione dell’obbligo di diligenza e buona fede, in questo sito), l’utilizzo per gran parte del tempo lavorativo del pc aziendale per accedere a facebook integra una violazione degli obblighi di diligenza e buona fede nell’espletamento della prestazione lavorativa, tale da legittimare il licenziamento.

Infine, il Tribunale di Milano (29 luglio 2013, n. 27552) ha ritenuto che può essere licenziato per giusta causa il prestatore che pubblica su facebook frasi diffamatorie nei confronti dell’impresa e dei colleghi, definiti “lecchini”, “burattini” nelle mani dell’azienda e del sindacato che li girano come “robottini” e che scrive che i colleghi “cadono ai piedi del datore come pecore”.

Al contrario, per un diverso filone giurisprudenziale, le condotte poste in essere dai dipendenti sui social media non giustificano il recesso datoriale dal rapporto di lavoro. Ne è un esempio Cass. 31 maggio 2017 n. 13799 (con nota di F. BELMONTE, Critiche al datore di lavoro sui social network e licenziamento, in questo sito), per la quale, esprimere giudizi negativi sul proprio datore di lavoro, postandoli sulla propria pagina facebook, non legittima il licenziamento.

Allo stesso modo, per il Tribunale di Parma (9 febbraio 2018, n. 27) è illegittimo licenziare il dipendente che scriva su facebook (commentando un articolo in cui è riportato che l’azienda datrice impieghi i propri i dipendenti anche di domenica): «È un’offesa ai lavoratori che lavorano la domenica! Tanto meritate solo disprezzo egregi padroni ci costringete a lavorare di domenica con dei discorsi che sanno di ricatto. Anzi li costringete!».  Il post infatti non è direttamente lesivo della società datrice di lavoro perché la critica si rivolge genericamente alla categoria dei «padroni».

Invece, per i giudici molisani (Trib. Larino 4 agosto 2016, 1282), la condotta del lavoratore che, commentando la recensione di un cliente, mette in cattiva luce un collega e trascina l’azienda in commenti di altri utenti poco rispettosi, deve essere contestata subito, in maniera precisa e dettagliata, altrimenti non rappresenta una giusta causa di licenziamento.

 

Twitter e licenziamento
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