Il lavoratore inidoneo alla mansione può essere adibito a mansioni equivalenti o, se impossibile, anche inferiori, purché nell’ambito dell’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore.

Nota a Cass. 5 aprile 2018, n. 8419

Francesco Belmonte

Il licenziamento del dipendente, divenuto inidoneo alla mansione a causa di una malattia, è legittimo qualora nell’ambito dell’organizzazione aziendale manchino posizioni alternative, anche di contenuto professionale inferiore, alle quali assegnare il dipendente ovverosia in azienda non sussistano, per il prestatore, mansioni idonee a tutelare il suo interesse alla conservazione dell’occupazione (fondato sull’art. 4 Cost.) e il suo diritto, ex art. 2087 c.c., alla salvaguardia dell’integrità psico/fisica.

La verifica della disponibilità di posizioni alternative non deve però pregiudicare e o snaturare l’organizzazione del lavoro dell’impresa.

Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione (5 aprile 2018, n. 8419) che, sulla base del consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità in tema di individuazione da parte del datore di mansioni alternative cui possa essere adibito il lavoratore affetto da inidoneità fisica, ha affermato che non possa esigersi che il datore riceva una prestazione parziale non satisfattiva del suo interesse, in un contesto aziendale del quale l’organizzazione da parte datoriale deve ritenersi insindacabilmente rimessa allo stesso.

Infatti, in caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni proprie della sua qualifica (nella specie addetto alla pompa di un distributore di benzina) il recesso datoriale va valutato alla luce di “canoni interpretativi che valorizzano la possibilità di adibizione del lavoratore inidoneo ad una diversa attività lavorativa riconducibile alle mansioni già assegnate o ad altre equivalenti, e subordinatamente anche inferiori, sempre che venga attribuito rilievo, nel bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti (art. 4 Cost. ed art. 41 Cost.), all’interesse del datore di lavoro ad una collocazione del lavoratore inidoneo che non incida nel senso di modificare le scelte organizzative con pregiudizio per gli altri lavoratori ed alterazione inammissibile della qualità dell’organigramma aziendale”.

In quest’ottica, nell’ipotesi di sopraggiunta infermità permanente del lavoratore non si realizza un’impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo oggettivo di licenziamento qualora sia possibile adibire il lavoratore a mansioni equivalenti o, se impossibile, anche a mansioni inferiori, “purché da un lato tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore, e dall’altro, l’adeguamento sia sorretto dal consenso, nonché dall’interesse della stesso lavoratore”. Più specificamente, il datore di lavoro non è tenuto ad adottare particolari misure tecniche “per porsi in condizione di cooperare all’accettazione della prestazione lavorativa di soggetti affetti da infermità, che vada oltre il dovere di sicurezza imposto dalla legge” (cfr. Cass. n.15500/2009, Cass. n. 21710/2009).

Inoltre, grava sul datore di lavoro, da un lato, un obbligo di reperimento e di assegnazione delle mansioni più consone al mutato stato di salute del lavoratore divenuto inidoneo per motivi di salute; e, dall’altro, l’onere di dimostrare l’impossibilità di riutilizzo del lavoratore in altre mansioni (“suscettibili di salvaguardare il bene occupazione, a meno che ciò non comporti aggravi organizzativi”).

Sul datore di lavoro incombe altresì l’onere di “contrastare eventuali allegazioni del prestatore di lavoro, nei cui confronti è esigibile una collaborazione nell’accertamento di un possibile “repêchage” in ordine all’esistenza di altri posti di lavoro nei quali possa essere utilmente ricollocato” (v., fra le tante, Cass. n. 10018/2016, Cass. n. 4920/2014, Cass. n. 25197/2013).

La Corte, poi, richiama un suo precedente (Cass. 5 gennaio 2017 n. 160, annotata in questo sito, da F. BELMOMTE, L’obbligo di repêchage nel licenziamento per ragioni economiche) per riaffermare il principio secondo cui “esigere che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all’interno dell’azienda significa, se non invertire sostanzialmente l’onere della prova (che – invece – l’art. 5 L. n. 604/66 pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio, nel senso di addossare il primo ad una delle parti in lite e il secondo all’altra”, in contrasto con i principi di diritto processuale secondo cui “onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione”.

Sulla questione, v. anche, in questo sito, Cass. n. 21996/2016, con nota di F. BELMONTE, Repechâge e onere della prova nel licenziamento per motivi oggettivi; Cass. n. 5592/2016, con nota di G. I. VIGLIOTTI, Impossibilità di ricollocare il dipendente: è il datore a fornirne la prova).

Sopraggiunta infermità permanente e licenziamento per giustificato motivo oggettivo
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