I lavoratori a termine non posso avere un trattamento meno favorevole dei prestatori a tempo indeterminato svolgenti le medesime mansioni.
Nota a Cass. ord. 22 marzo 2018, n. 7112
Francesco Belmonte
In caso di assunzione a tempo indeterminato, il dipendente, ai fini della progressione stipendiale, ha diritto, al pari degli altri dipendenti di ruolo comparabili, al riconoscimento dell’anzianità maturata nei rapporti di lavoro a tempo determinato precedentemente intercorsi tra le parti.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (22 marzo 2018, n. 7112) in relazione a due ricercatori del CNR, assunti prima a termine e poi, previo concorso pubblico, a tempo indeterminato, i quali chiedevano la ricostruzione della posizione contributiva e retributiva maturata nei precedenti rapporti a tempo determinato, utile per la progressione stipendiale, così come riconosciuta ai dipendenti di ruolo comparabili.
Nel formulare il suddetto principio di diritto, la Corte fa riferimento alla Direttiva n. 1999/70/CE (relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) ed alla copiosa giurisprudenza eurounitaria formatasi in argomento.
In particolare, la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro [recepita nel ns. ordinamento, dapprima, nell’art. 6, D.LGS. 6 settembre 2001, n. 368 (ora abrogato), ed in seguito, nell’art. 25, D.LGS. 15 giugno 2015, n. 81] stabilisce che: “Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”.
Segnatamente, l’obbligo posto in capo agli Stati membri di assicurare al dipendente a termine “condizioni di impiego” che non siano deteriori rispetto a quelle riservate all’assunto a tempo indeterminato “comparabile” costituisce attuazione del principio di parità di trattamento e del divieto di discriminazione quali “norme di diritto sociale dell’Unione di particolare importanza, di cui ogni lavoratore deve usufruire in quanto prescrizioni minime di tutela” (cfr. Corte di Giustizia UE 9 luglio 2015, C-177/14, punto 32).
La richiamata clausola 4 è stata più volte oggetto di esame da parte della Corte di Giustizia, la quale ha evidenziato che:
a) essa esclude, “in generale ed in termini non equivoci”, qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, “sicché la stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno” (Cass. n. 7112/2018, che richiama Corte di Giustizia 8 settembre 2011, C-177/10; Corte di Giustizia 15 aprile 2008, C- 268/06; Corte di Giustizia 13 settembre 2007, C-307/05);
b) il principio di non discriminazione non può essere interpretato in modo restrittivo, per cui la riserva in materia di retribuzioni contenuta nell’art. 137, n. 5, TCE (oggi 153, n. 5, TFUE) “non può impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorché proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Corte di Giustizia 13 settembre 2007, C-307/05, cit., punto 42);
c) le maggiorazioni retributive che derivano dalla anzianità di servizio del lavoratore costituiscono “condizioni di impiego”ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a termine solo in presenza di una giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9 luglio 2015, C-177/14, punto 44);
d) a tal fine, non è sufficiente che la diversità di trattamento sia sancita da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto, né rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra impiego di ruolo e non di ruolo, in quanto simile disparità “può essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate” (Cass. n. 7112/2018, che richiama Corte di Giustizia 9 luglio 2015, C-177/14, cit., punto 55 e, con riferimento ai rapporti di lavoro non di ruolo degli enti pubblici italiani, Corte di Giustizia 18 ottobre 2012, cause riunite C-302/11 e C-305/11).
Pertanto, alla luce di simili principi, la disposizione eurounitaria deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale la quale escluda che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di una pubblica amministrazione siano presi in considerazione per determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro; a meno che tale esclusione sia giustificata da “ragioni oggettive”, cioè da circostanze precise e concrete che contraddistinguono il rapporto di impiego in questione, “nel particolare contesto in cui si iscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale disparità risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria” (Cass. n. 7112/2018, che richiama Corte di Giustizia 13 settembre 2007, C-307/05, cit.).
Nella specie, “il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia compiuto i suddetti periodi di servizio sulla base di un contratto o di un rapporto di lavoro a tempo determinato non configura una ragione oggettiva di tal genere” (Cass. n. 7112/2018).