Non è subordinazione se mancano la volontà delle parti e la retribuzione.
Trib. Reggio Calabria 15 marzo 2018, n. 439
Simona Santoro
Anche se un soggetto lavora all’interno del locale aziendale, con attività tipica dell’azienda e con una prestazione lavorativa che, seppur in una sola giornata, si inserisce nella organizzazione lavorativa, se manca sia la volontà delle parti che il corrispettivo pattuito o comunque la remunerazione non si può ritenere che le parti abbiano posto in essere “un rapporto giuridicamente rilevante sub specie del lavoro subordinato caratterizzato dalla onerosità e dal sinallagma lavoro- retribuzione”.
Lo ha affermato il Tribunale di Reggio Calabria 15 marzo 2018, n. 439, in relazione ad un ricorso avverso l’ordinanza-ingiunzione n. 917/2016 emessa dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direzione Territoriale del Lavoro di Reggio Calabria, U.O. Affari Legali e Contenzioso (notificata in data 08/11/2016, con la quale ha ingiunto il pagamento della complessiva somma di Euro 5.959,05 a carico della titolare di un negozio di parrucchiere, per violazione delle disposizioni di cui agli artt. 4 bis, co. 2, D.LGS. n. 181/2000, 39 co. 1 e 2, D.L. n. 112/2008 convertito in Legge n. 133/2008 ed art. 3, co. 3, D.L. n. 12/2002 convertito in Legge n. 73/2002).
Nella fattispecie, i funzionari ispettivi avevano effettuato un accesso presso i locali di una società allo scopo di verificare l’osservanza delle norme di tutela dei rapporti di lavoro e di legislazione sociale; dal contenuto del verbale di primo accesso ispettivo (n. 97/99 del 17/07/2015), emergeva che i funzionari incaricati identificavano tra i presenti, oltre alle due socie, una terza persona che era stata “vista passare la tinta ai capelli ad una cliente”.
Le due socie tuttavia opponevano che una di loro non poteva prestare la propria opera per gravidanza e l’altra aveva da poco subìto un intervento ambulatoriale al piede in conseguenza del quale le era stato prescritto un periodo di riposo di quindici giorni.
Quanto a colei che aveva “passato la tintura” ad una cliente, la stessa affermava di essersi recata al negozio per un’occasionale visita di cortesia (essendo cognata della titolare) e “di non aver mai avuto nessun rapporto di lavoro con il centro estetico né tantomeno di avere mai percepito alcun compenso, avendo, solo a titolo di favore quel giorno, per caso, cercato di dare una mano di aiuto alle titolari, visto la loro difficoltà”.
Secondo il giudice, nel caso di specie non risultava alcun accertamento da parte degli ispettori sul carattere oneroso della prestazione né la durata apprezzabile della prestazione stessa né la volontà di un rapporto con corrispettività.
Quanto al legame familiare, Il Tribunale ritiene che esso non possa costituire valida giustificazione per escludere il carattere subordinato della prestazione, qualora il datore di lavoro sia una società e non una ditta individuale, sicché, nella specie, non è configurabile un rapporto di familiarità che possa escludere la subordinazione stessa; e, circa l’onere della prova, si conforma al principio espresso da Cass. 2 agosto 2010, n. 17992, in base al quale “ove la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative fra persone legate da vincoli di parentela o affinità debba essere esclusa per l’accertato difetto della convivenza degli interessati, non opera ipso iure una presunzione di contrario contenuto, indicativa cioè dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, cosicché, in caso di contestazione, la parte che faccia valere diritti derivanti da tale rapporto ha comunque l’obbligo di dimostrarne, con prova precisa e rigorosa, tutti gli elementi costitutivi e, in particolare, i requisiti indefettibili della onerosità e della subordinazione”.
Nel senso che l’ipotesi di consulenza artistica sia riconducibile a prestazioni scambiate in base ad un rapporto amicale implicante la gratuità delle medesime e la reciprocità delle utilità conseguite da ciascuna delle parti, v. Cass. 8 gennaio 2018, n. 212.