Lasciare un lavoratore inattivo lede la sua dignità professionale e produce automaticamente un danno rilevante sul piano patrimoniale.
Nota a Cass. 9 maggio 2018, n. 11169
Francesca Albiniano
Il datore di lavoro che lasci in condizione di inattività il dipendente viola l’art. 2103 c.c., secondo cui “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto…”, e lede il fondamentale diritto al lavoro (art. 4 Cost.), “inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza”. Tale lesione riguarda un “bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo”, e determina “automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa”.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione (9 maggio 2018, n. 11169; in senso conforme, v. Cass. n.7963/2012), secondo cui, nell’ipotesi in cui venga accertato un demansionamento professionale (in violazione dell’art. 2103 c.c.), il giudice di merito può desumere l’esistenza di un danno patrimoniale, determinandone l’entità in via equitativa sulla base di prove anche presuntive circa una serie di elementi di fatto e cioè: esperienza lavorativa pregressa; tipo di professionalità colpita; durata del demansionamento; esito finale della dequalificazione e ulteriori circostanze relative al caso concreto (sul punto, v. Cass. n. 19778/2014).
Nella fattispecie esaminata dal Collegio, il lavoratore, dopo essere stato reintegrato in servizio, era stato tenuto in forzata inattività, ritenuta dalla Corte di merito quale “impedimento alla prosecuzione della crescita professionale, motivo di stress e perdita di fiducia da parte del lavoratore”. Ciò, sulla base di “una valutazione sul lungo tempo intercorso tra la disposizione di reintegrazione e la effettività di questa e l’età del ricorrente, collocata in una fase della vita lavorativa (33-36 anni) in cui è particolarmente spiccata la crescita professionale e quindi la frustrazione conseguente alla esclusione dal contesto lavorativo”.