A pochi mesi dalla riforma dell’istituto (di fine 2017), La Cassazione Penale interviene sul principio di riservatezza dell’identità del segnalatore, ribadendo la sua applicabilità al solo ambito del rapporto di lavoro.
Nota a Cass. Pen., 27 febbraio 2018, n. 9047
Gennaro Ilias Vigliotti
La disciplina del c.d. “whistleblowing”, ossia della segnalazione di illeciti commessi all’interno dei luoghi di lavoro effettuata da un lavoratore, prevede l’obbligo di riservatezza circa le generalità del dipendente-segnalatore. Tale principio trova applicazione specifica nell’ambito della procedura disciplinare a carico del destinatario delle accuse, durante la quale l’identità del c.d. “whistleblower” può essere rivelata solo previo consenso dello stesso e solo qualora la contestazione disciplinare sia fondata in tutto o in parte proprio su tale segnalazione e sia necessario conoscere il nome del soggetto denunciante per accertare i fatti.
La disciplina del fenomeno, con riferimento al settore del lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, è contenuta nell’art. 54-bis del D.LGS. n. 165/2001 (c.d. “Testo Unico del pubblico impiego”), ed è stata recentemente oggetto di riforma con la L. n. 179/2017, la quale ha approfondito alcuni aspetti dell’istituto, oltre ad averlo esteso, per la prima volta, anche al settore privato (tramite la modifica dell’art. 6 del D. Lgs. n. 231/2001).
La Corte di Cassazione, Sezione Penale, ha avuto modo di confrontarsi con questa disciplina nella sentenza 27 febbraio 2018, n. 9047, approfondendo proprio la questione del necessario anonimato del segnalatore.
In particolare, i giudici di legittimità hanno analizzato l’ordinanza del Tribunale delle Libertà di Napoli che aveva disposto la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di un dipendente dell’Agenzia del territorio di Santa Maria Capua Vetere (CE), indagato per una pluralità di episodi di corruzione, truffa aggravata e falso ideologico, giunti alla conoscenza dei vertici dell’Ente proprio tramite una segnalazione anonima trasmessa tramite il “canale di whistleblowing” dell’ufficio del responsabile per la prevenzione della corruzione. La tesi dell’indagato era quella che, trattandosi di segnalazione anonima, essa non poteva essere utilizzata per determinare i gravi indizi di reato necessari per la misura cautelare, poiché poco circostanziata, quantomeno sotto il profilo del soggetto denunciante.
Ebbene, la Cassazione ha affermato che la disciplina lavoristica del “whistleblowing” stabilisce che il principio dell’anonimato sia limitato esclusivamente all’ambito del rapporto di lavoro (e, in particolare, a quello della procedura disciplinare) mentre tale principio non può operare nel settore penalistico, dove esigenze di accertamento della verità processuale impongono il disvelamento dell’identità del segnalatore quando ciò sia ritenuto necessario per la conduzione delle indagini. Ciò era quanto accaduto nel caso di specie, in cui la segnalazione del “whistleblower”, inizialmente anonima, era stata poi ricondotta ad un collega dell’indagato, proprio al fine di effettuare tutti gli accertamenti necessari in sede penale.
Secondo i giudici, questa lettura sarebbe confermata anche dalle modifiche apportate di recente dalla L. n. 179/2017, la quale “con disciplina più puntuale, coerentemente alla perseguita finalità di apprestare un’efficace tutela del dipendente pubblico che rilevi illeciti, ha precisato espressamente che, nell’ambito del procedimento penale, l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’art. 329 del Codice di procedura penale”.
Dal disvelamento dell’identità del segnalatore nell’ambito di una indagine penale, dunque, non può derivare alcuna conseguenza sulla legittimità della segnalazione stessa, poiché il principio del necessario anonimato, salvo consenso dell’interessato, vale esclusivamente con riferimento al rapporto di lavoro e, in particolare, al procedimento disciplinare.