È ritorsivo il licenziamento del dirigente se determinato unicamente da condotte lecite poste in essere per eseguire una direttiva del soggetto gerarchicamente sovraordinato.
Nota a Trib. Milano, ord.,10 aprile 2018
Giuseppe Catanzaro
Il licenziamento ritorsivo consiste in una reazione, da parte del datore di lavoro, ingiusta e arbitraria che fa seguito ad una condotta legittima del lavoratore colpito dal recesso (in tema, v., in questo sito, sub Indirizzi Operativi, P.P., Licenziamento discriminatorio e ritorsivo; sub 100 parole, A.L., Licenziamento ritorsivo). Si tratta, pertanto, di una fattispecie non del tutto assimilabile al licenziamento discriminatorio, in quanto il recesso datoriale costituisce non il frutto di una discriminazione tout court, bensì un’indebita reazione rispetto ad un comportamento lecito del lavoratore (Cass. n. 6575/2016).
Sul punto, si è pronunciato il Tribunale di Milano con l’ordinanza 10 aprile 2018, relativa ad un licenziamento ritorsivo disposto nei confronti di un dirigente al quale veniva contestato di avere partecipato a tre riunioni con i componenti della società convenuta senza palesare di essere legato con un’azienda concorrente. Da ciò era disceso il licenziamento.
I giudici hanno rilevato che il lavoratore era divenuto dirigente per volontà dell’amministratore delegato ed aveva partecipato alle suddette riunioni sempre su iniziativa dell’allora amministratore delegato i cui rapporti con la società erano ormai deteriorati. Per questo motivo, il dirigente era stato licenziato con provvedimento ritenuto ritorsivo, in quanto del tutto arbitrario.
Parimenti fondato su una ritorsione è stato considerato il recesso datoriale facente seguito al rifiuto da parte del dipendente, di accettare una transazione circa le questioni economiche inerenti al pregresso rapporto di lavoro, così “configurandosi
l’intento ritorsivo che lo ispirava, aggravato dal fatto che il lavoratore si era rifiutato di rassegnare le proprie dimissioni, alle quali era stato indotto dalla società, onde porre fine al rapporto di lavoro inter partes, ormai significativamente deteriorato” (Così, Cass. 1 marzo 2018, n. 4883).
Come noto, secondo a giurisprudenza, l’onere probatorio del carattere discriminatorio del recesso grava sul lavoratore (Cass. 8 agosto 2011, n. 17087 e Cass. 18 marzo 2011, n. 62829) e lo stesso può ritenersi assolto mediante la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere, con sufficiente certezza, l’intento di rappresaglia, la cui efficacia determinativa sia riconducibile in via esclusiva alla volontà del datore di lavoro (Cass. 5 agosto 2010, n. 18283).