Se il procedimento disciplinare non viene attivato (anche in caso di dimissioni del dipendente in pendenza di sospensione facoltativa dal servizio), la sospensione cautelare facoltativa diviene priva di titolo, con conseguente diritto del dipendente alla restitutio ad integrum e computabilità, ai fini del T.F.S., del periodo di sospensione.
Nota a Cass. 26 aprile 2018, n. 10137
Paolo Pizzuti
Nel pubblico impiego, la sospensione cautelare, obbligatoria e facoltativa (come disciplinata dagli artt. 91 ss., DPR. 10 gennaio 1957, n. 3) è una misura cautelare e interinale del servizio:
– adottata in base ad una valutazione discrezionale dell’Amministrazione (con eccezione della ipotesi della emissione del mandato ordine di cattura nei confronti del dipendente);
– finalizzata ad impedire che, in pendenza di un procedimento penale, “la permanenza in servizio del dipendente inquisito possa pregiudicare l’immagine e il prestigio della amministrazione di appartenenza, la quale, quindi, è tenuta a valutare se nel caso concreto la gravità delle condotte per le quali si procede giustifichi l’immediato allontanamento dell’impiegato”;
– provvisoria e rivedibile nel senso che “solo al termine e secondo l’esito del procedimento disciplinare si potrà stabilire se la sospensione preventiva applicata resti giustificata e debba sfociare nella destituzione o nella retrocessione, ovvero debba venire caducata a tutti gli effetti” (v. Corte Cost. 6 febbraio 1973, n. 168).
È quanto chiarito dalla Corte di Cassazione (26 aprile 2018, n. 10137), la quale, con specifico riguardo alla sospensione facoltativa, ha precisato che la verifica della effettiva sussistenza di ragioni idonee a giustificare l’immediato allontanamento del lavoratore “è indissolubilmente legata all’esito del procedimento disciplinare”, in quanto la scelta dell’Amministrazione di sospendere il rapporto di lavoro (in attesa di accertare la responsabilità penale e disciplinare) potrà considerarsi giustificata solo se questo si concluda validamente con una sanzione di carattere espulsivo.
Ne consegue che, se all’esito del processo penale (anche se conclusosi con la condanna dell’imputato) la procedura disciplinare non viene attivata, la sospensione diviene priva di titolo, con conseguente diritto del dipendente alla restitutio ad integrum (che, invece, non compete in caso di sospensione obbligatoria conseguente a provvedimento restrittivo della libertà personale).
Inoltre, l’Amministrazione è comunque tenuta ad attivare o a coltivare il procedimento disciplinare (al fine di impedire che la sospensione stessa divenga priva di titolo, con conseguente diritto del dipendente alla restitutio in integrum) anche in caso di dimissioni del dipendente in pendenza di sospensione facoltativa dal servizio. Le dimissioni del prestatore di lavoro, infatti, non possono da sole impedire l’avvio o la prosecuzione del procedimento disciplinare poiché nel pubblico impiego, a differenza di quello privato, “l’iniziativa disciplinare ‘postuma’ si giustifica oltre per la necessità di regolare definitivamente gli effetti della sospensione cautelare, anche per l’interesse dell’amministrazione a vedere accertata la responsabilità al fine di impedire che il dipendente possa essere riammesso in servizio, partecipare a successivi concorsi pubblici, o far valere il rapporto di impiego come titolo per il conferimento di incarichi da parte della p.a.” (art. 55 bis, D.LGS. n. 165/2001).
Come noto, con riferimento alla restitutio in integrum, la normativa in materia di sospensione cautelare, obbligatoria e facoltativa, stabilisce che: 1) se all’esito della sanzione disciplinare non viene irrogata alcuna sanzione o se la sanzione inflitta è meno grave rispetto alla destituzione o alla sospensione della qualifica, all’impiegato vanno corrisposti tutti gli assegni non percepiti, con la sola esclusione dei compensi per servizi di carattere speciale o per prestazioni di carattere straordinario; 2) “quando la sospensione cautelare sia stata disposta in dipendenza del procedimento penale e questo si concluda con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato perché il fatto non sussiste o perché l’impiegato non lo ha commesso, la sospensione è revocata e l’impiegato ha diritto a tutti gli assegni non percepiti, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario e salva deduzione dell’assegno alimentare eventualmente corrisposto” (art. 97, co. 1, DPR. n. 3/1957); 3) inoltre, se il procedimento penale si conclude con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato per ragioni diverse da quelle sopra indicate, può essere esclusa la piena reintegrazione soltanto nel caso in cui venga attivato entro termini perentori il procedimento disciplinare e quest’ultimo si concluda con l’irrogazione della sanzione (art. 97, co.1 e 5, DPR. cit.).