A. Esternalizzazione dei processi produttivi ed appalto di opere o di servizi
Il fenomeno dell’esternalizzazione (c.d. “outsourcing”) si verifica quando un’impresa, nell’organizzazione del processo produttivo, dismette la gestione diretta di alcuni segmenti della propria attività ovvero di servizi accessori estranei alle sue competenze di base (c.d. core business) (Cass. 2 ottobre 2006, n. 21287, FI, 2007, I, 106, con nota di R. COSIO).
Il decentramento produttivo ha dimensioni molto ampie e potendo generare fenomeni di dumping contrattuale tra le imprese è puntualmente regolato in via legislativa. Esso può essere realizzato attraverso il ricorso alle seguenti operazioni negoziali (c.d. tecniche di outsourcing):
- somministrazione di lavoro (artt. 30-40, D.LGS. n. 81/2015);
- appalto di opere o di servizi (art. 29, D.LGS. n. 276/2003);
- cessione di ramo d’azienda (art. 2112 c.c.).
La scelta concreta tra le varie alternative è rimessa all’insindacabile valutazione dell’imprenditore, a norma dell’art. 41 Cost., e non può essere valutata dal giudice di merito.
B. Criteri distintivi tra appalto e somministrazione di lavoro
L’imprenditore che non intenda eseguire direttamente un’opera o un servizio con proprio personale ha facoltà di attuare un decentramento produttivo avvalendosi di personale somministrato da apposite agenzie autorizzate (v. art. 4 ss., D.LGS. n. 276/2003), oppure appaltando l’opera o il servizio ad un terzo, che lo esegua con propria organizzazione ed a proprio rischio.
Più specificamente, l’appalto di opere o servizi (art. 1655 c.c.), anche interni al ciclo produttivo dell’appaltante, è un contratto c.d. di risultato in virtù del quale:
- una parte, l’appaltante, affida all’altra, l’appaltatore, la realizzazione di un’opera o lo svolgimento di un servizio (Per la individuazione dell’appalto di servizi, v. Cass. 17 aprile 2001, n. 5609; Trib. Roma 7 marzo 2007, RGL, 2008, II, 182, con nota di L. VALENTE). L’oggetto del contratto è, dunque, una prestazione di “fare” (Min. Lav. Circ. 11 febbraio 2011, n. 5);
- l’appaltatore (c.d. anche committente), cioè, esegue l’opera attraverso la propria organizzazione imprenditoriale (non solo avvalendosi di mere prestazioni di lavoro), esercitando sui lavoratori impiegati nella realizzazione dell’appalto il potere organizzativo, direttivo e disciplinare (v. Cass. pen., sez. III , 26 marzo 2013, n. 14087).
Diversamente, nel lavoro somministrato, l’oggetto del contratto di somministrazione, stipulato tra il somministratore e l’utilizzatore, è una prestazione di “dare” (Min. Lav. Circ. n. 5/2011, cit.), in quanto il somministratore si limita a fornire all’utilizzatore mera forza di lavoro (i lavoratori somministrati) e l’organizzazione e la direzione restano in capo all’utilizzatore, che esercita tutti i poteri del datore di lavoro.
Pertanto, nel contratto di appalto, a differenza del lavoro somministrato, rilevano i seguenti elementi (art. 29, co. 1, D.LGS. n. 276/2003):
1. un’autonoma organizzazione funzionale e gestionale dell’appaltatore;
2. la circostanza che l’appaltatore assume su di sé il rischio di impresa e le prestazioni fornite in appalto non possono essere slegate dal conseguimento di un risultato finale (V. Min. Lav. Nota 27 novembre 2007, n. 15749).
Quando l’appalto non abbia tali requisiti, esso configura somministrazione illecita di lavoro ed il lavoratore può chiedere la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione (art. 29, co. 3-bis, D.LGS. n. 276/2003).
Secondo la giurisprudenza, sono indici sintomatici di non genuinità di un affidamento formalmente qualificato come “appalto”, ma in realtà dissimulante una somministrazione di personale:
a) l’organizzazione da parte del committente dell’attività dei dipendenti dell’appaltatore (v. Cons. Stato 12 marzo 2018, n. n. 1571; Cass. 7 febbraio 2017, n. 3178);
b) l’inserimento stabile del personale dell’appaltatore nel ciclo produttivo del committente;
c) l’identità dell’attività svolta dal personale dell’appaltatore rispetto a quella svolta dai dipendenti del committente;
d) la richiesta da parte del committente di un certo numero di ore di lavoro. In questo senso, secondo il Consiglio di Stato (12 marzo 2018, n. 1571, cit.) configura una somministrazione di personale e, come tale, può essere realizzata solo dalle agenzie per il lavoro autorizzate a tale scopo dal Ministero del Lavoro, un appalto di servizi che preveda la semplice messa a disposizione di un pacchetto di ore di lavoro in favore di un terzo, rese da addetti coordinati dal soggetto che riceve la prestazione. La vicenda esaminata dai giudici amministrativi riguardava il bando di gara predisposto da una Asl per l’affidamento a terzi, mediante contratto di appalto, del compito di svolgere, per i propri uffici, alcune attività di supporto giuridico, amministrativo, tecnico, contabile e di segreteria, oltre che sostegno e gestione dei servizi centrali, distrettuali e ospedalieri; archiviazione e data entry. Il bando, peraltro, non prevedeva neppure che l’appaltatore mettesse a disposizione mezzi e attrezzature: il personale dell’appaltatore doveva utilizzare, infatti, mezzi e attrezzature della Asl (quali computer, cancelleria, fotocopiatrici), prestando la propria attività presso la sede della stessa. Stante l’assenza di elementi concreti in grado di confermare l’autonomia imprenditoriale dell’appaltatore, il Consiglio di Stato ha considerato ininfluenti le clausole “generiche”, contenute nel capitolato, secondo le quali i servizi sarebbero stati “svolti con esclusiva organizzazione, responsabilità e rischio della ditta aggiudicataria”;
e) la carenza di misure tese a scongiurare l’interferenza e la commistione tra i dipendenti di committente e appaltatore e l’assenza di confini certi nelle rispettive fasi di produzione;
f) la proprietà in capo al committente delle attrezzature necessarie per l’espletamento delle attività (v. Cass. n. 3178/2017, cit.).
Con specifico riferimento alle inadempienze retributive e contributive nei confronti dei lavoratori impiegati nell’esecuzione di un appalto non genuino, l’INL (Circ. 11 luglio 2018, n.10) ha fornito indicazioni operative su come debbano essere calcolate la contribuzione e la retribuzione dovute e quali siano, anche alla luce dell’orientamento giurisprudenziale, le modalità da seguire per il relativo recupero nei confronti degli operatori economici interessati.
A tal fine, l’INL premette che il legislatore (ai sensi dell’art. 29, co.3 bis, D.LGS. n. 276/2003) lascia alla libera iniziativa del lavoratore la facoltà di ricorrere, ex art. 414 c.p.c., innanzi al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro, al fine di ottenere la costituzione del rapporto di lavoro nei confronti dell’effettivo utilizzatore della prestazione; sicché “la circostanza che il lavoratore sia considerato dipendente dell’effettivo utilizzatore della prestazione non è ‘automatica’, ma è subordinata al fatto costitutivo dell’instaurazione del rapporto di lavoro su domanda del lavoratore”.
Pertanto, fatta eccezione per quanto disposto dall’art. 38, co.1, D.LGS. n. 81/2015 – per cui. “In mancanza di forma scritta il contratto di somministrazione di lavoro è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore” -, se manca il ricorso del lavoratore (ex art. 414 c.p.c.) e, conseguentemente, la costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, potrà essere adottato un provvedimento di diffida accertativa “esclusivamente nei confronti dello pseudo appaltatore (ex art. 12, D.LGS. n. 124/2004) con riguardo alle “retribuzioni non correttamente corrisposte in ragione del ccnl dallo stesso applicato”.
Diversamente, per quanto concerne il recupero contributivo, lo stesso non è condizionato dal ricorso giudiziale del lavoratore volto al riconoscimento del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, poiché “il rapporto previdenziale intercorrente tra datore di lavoro e Ente previdenziale trova la propria fonte nella legge e presuppone esclusivamente l’instaurazione di fatto di un rapporto di lavoro; come tale non consegue alla stipula di un atto di natura negoziale ed è indifferente alle sue vicende processuali essendo del tutto sottratto alla disponibilità delle parti” (v. Cass. n. 17355/2017 e n. 6001/2012).
Qualora, perciò, si accerti che la prestazione lavorativa è resa in favore dell’utilizzatore (che si configura, pertanto, quale datore di lavoro di fatto), gli obblighi di natura pubblicistica in materia di assicurazioni sociali gravano per l’intero su quest’ultimo.
“Il personale ispettivo, quindi, procederà alla determinazione dell’imponibile contributivo dovuto per il periodo di esecuzione dell’appalto avendo riguardo al ccnl applicabile al committente ai sensi dell’art. 1, co. 1, D.L. n. 338/1989 e al conseguente recupero nei confronti dello stesso, fatta salva l’incidenza satisfattiva dei pagamenti effettuati dallo pseudo appaltatore”.
Riguardo poi il coinvolgimento dello pseudo appaltatore nell’adempimento degli obblighi contributivi, l’Istituto afferma che, se non va a buon fine il recupero contributivo nei confronti del committente/utilizzatore, l’ammontare dei contributi può essere richiesto in capo allo pseudo appaltatore che “non può ritenersi del tutto estraneo alle vicende accertate” (il medesimo principio vale relativamente all’intera filiera degli appalti ed ai casi di affidamento dell’esecuzione dell’appalto da parte del consorzio a società consorziata – v. Cass. n. 6208/2008). Ciò, in applicazione di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale (n. 254/2017), secondo cui – relativamente alla responsabilità solidale di cui all’art. 29, co. 2, D.LGS. n. 276/2003 – “la tutela del soggetto che assicura un’attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento”, a prescindere dalla fattispecie negoziale utilizzata; con il che risulta applicabile l’art. 29, co.2 cit. alla subfornitura, allo scopo di “ evitare il rischio che i meccanismi di decentramento – e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione – vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto commerciale ” (v. INL circ. n. 6/2018).
Con specifico riferimento al regime sanzionatorio, l’Istituto ribadisce che, nei casi di appalto illecito, sono previste, a seconda della gravità, sanzioni amministrative e penali (cfr. art. 18, co. 5 bis, D.LGS. n. 276/2003). In particolare, con il D.LGS. n. 8/2016, sono state oggetto di depenalizzazione le fattispecie di reato previste dall’art. 18, co. 5 bis cit. concernenti le ipotesi di appalto privo dei requisiti previsti dall’art. 29, co.1 (potere organizzativo e rischio d’impresa). Tali fattispecie, attualmente, integrano ipotesi di illecito amministrativo cui si applica la sanzione “di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro sia nei confronti dello pseudo appaltatore che nei confronti del committente/utilizzatore” (v. INL, Circ. n. 10/2018 e Min. Lav. Circ. n. 6/2016).
Stante poi l’abrogazione espressa, ad opera del D.LGS. n. 81/2015, del reato di somministrazione fraudolenta di cui all’art. 28, D.LGS. n. 276/2003, si applica lo stesso regime sanzionatorio (di natura amministrativa) anche nel caso di appalto illecito posto in essere al fine di eludere, in tutto o in parte, i diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo.
L’INL rileva anche che, dal momento che la misura sanzionatoria in oggetto è applicata ad ipotesi caratterizzate dalla “tracciabilità del rapporto di lavoro e dei connessi adempimenti retributivi e contributivi”, pur se “facenti capo ad un datore di lavoro che non è l’effettivo utilizzatore delle prestazioni” (v. Min. Lav. Interpello n. 27/2014), resta esclusa l’applicazione delle “sanzioni per lavoro nero e delle altre sanzioni amministrative legate agli adempimenti di costituzione e gestione del rapporto di lavoro”. Peraltro, anche secondo la Cassazione “l’unico rapporto di lavoro rilevante verso l’ente previdenziale è quello intercorrente con il datore di lavoro effettivo” (v. Cass. n. 20/2016; e n. 463/2012).
Come noto, rimangono sanzionate penalmente le ipotesi nelle quali l’intermediario richieda compensi al lavoratore o vi sia sfruttamento di minori. Inoltre, laddove ricorrano specifici presupposti, trova applicazione il reato previsto dall’art. 603-bis c.p., sul c.d. caporalato, applicabile a qualsiasi forma di reclutamento e intermediazione di manodopera “in condizioni di sfruttamento” e “approfittando dello stato di bisogno” del lavoratore.
C. Appalto, trasferimento e cessione di ramo d’azienda
Nell’ipotesi di subentro di appalto, è esclusa la natura di trasferimento d’azienda (o di parte d’azienda) qualora sussistano elementi di discontinuità che determinino una specifica identità di impresa ed alla condizione che il nuovo appaltatore sia dotato di propria struttura organizzativa ed operativa. Qualora permanga un’identità di impresa (v. art. 29 D.LGS. n. 276/2003) si applicherà l’art. 2112 c.c. sul trasferimento d’azienda (v. Cass. 17 gennaio 2013, n. 1102). In assenza di tale trasferimento, per applicare la norma in questione occorreranno apposite dichiarazione concordi di volontà da parte delle imprese e/o della stazione appaltante (v. Cass. 6 dicembre 2016, n. 24972).
L’appalto di opere o servizi si distingue altresì dalla contigua tecnica di outsourcing, costituita dalla “cessione di ramo d’azienda”.
Con l’appalto di opere e di servizi, infatti, il committente si avvale di prodotti e servizi forniti da altra impresa che li produce, avvalendosi di una propria organizzazione imprenditoriale, senza dismettere un segmento produttivo.
Per cessione di ramo di azienda, agli effetti dell’art. 2112 c.c., si intende, invece, il trasferimento di un insieme di elementi produttivi, personali e materiali, organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità (v. Cass. 24 gennaio 2018, n. 1769, relativa alla cessione di una linea composta da informatori medico – scientifici, che ha ritenuto non configurabile un trasferimento di ramo di azienda se non viene trasferito un “gruppo di dipendenti dotati di particolari competenze stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, così da rendere le loro attività interagenti ed idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili”; così, può configurare un trasferimento anche la cessione che abbia ad oggetto soltanto il passaggio della forza lavoro (v. Cass. 12 aprile 2016, n. 7121, in questo sito, con nota di G.I. VIGLIOTTI).
Con la cessione di un ramo di azienda (art. 2112 c.c.), il cedente trasferisce, dunque, ad altro soggetto (cessionario) un segmento dell’organizzazione produttiva dotato di autonoma e persistente funzionalità obiettivamente apprezzabile, pur dovendosi tenere conto della sua destinazione che, normalmente, è quella di essere integrata nell’organizzazione del cessionario (v. Cass. 9 maggio 2014, n. 10128, RGL, 2014, II, 426, con nota di M. PALLINI). Gli elementi ceduti, pertanto, dovranno rendere possibile, per le loro caratteristiche ed il loro collegamento funzionale “relativo”, lo svolgimento di una specifica attività imprenditoriale “senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario” (Cass. n. 1769/2018, cit.; e Cass. 31 maggio 2016, n.11247; in relazione al trasferimento di una filiale di banca, v. Cass. 26 agosto 2014, n. 18258, FI, 2015, I, 1706).
Flavia Durval