Qualora il lavoratore deduca in giudizio il proprio demansionamento, spetta al datore provare il contrario.
Nota a Cass. 3 luglio 2018, n. 17365
Fabio Iacobone
Qualora il lavoratore ricorra in giudizio, sostenendo di aver subito un demansionamento riconducibile all’inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ex art. art. 2103 c.c., incombe su quest’ultimo l’onere di provare l’esatto adempimento del suddetto obbligo: “o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
Questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione (3 luglio 2018 n. 17365; v. anche Cass. n. 1169/2018 e n. 4211/2016), che conferma la sentenza di App. Cagliari (28 novembre 2012), relativa alla dequalificazione di un lavoratore che aveva subito un immotivato mutamento dell’orario lavorativo, con sei ore di pausa ed impossibilità di recarsi alla propria abitazione, molto distante dal luogo di lavoro, ed era stato assegnato a mansioni meramente manuali, con privazione del suo apporto collaborativo nel contesto aziendale nonché senza più inserimento nei turni di lavoro.
Nello specifico, la Corte territoriale aveva osservato che, fermo restando il potere imprenditoriale quanto all’organizzazione del lavoro, era onere del datore di lavoro fornire una ragione delle proprie scelte, soprattutto nel caso di specie in quanto le modifiche avevano riguardato un solo dipendente, comportando, dal punto di vista dell’orario lavorativo, “una prestazione più gravosa, con preclusione di ogni altra attività e, quanto ai compiti affidatigli, un declassamento rispetto ai precedenti lavori di manutenzione elettrica”. Inoltre, tali comportamenti illegittimi avevano determinato, nei confronti del lavoratore, il sorgere di una malattia, accertata da c.t.u. e ritenuta in “dipendenza casuale con il dedotto mutamento delle condizioni di lavoro”.
Quanto al danno subito dal dipendente ed alla sua quantificazione, la Cassazione (richiamando Cass. n. 330/2018) ha precisato che, in tema di demansionamento, spetta al giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, desumere l’esistenza del danno, “determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto” (in tal senso, v., fra le tante, Cass. n. 4031/2016; n.17163/2016; e n. 1327/2015).