I turni di lavoro devono essere comunicati ai lavoratori interessati con un ragionevole anticipo. La pausa pranzo senza “disponibilità” del lavoratore non rientra nell’orario di lavoro.
Nota a Cass. 3 settembre 2018, n. 21562
Osvaldo Landolfi
I turni di servizio devono essere comunicati ai dipendenti, anche in assenza di specifiche disposizioni normative, con un ragionevole anticipo, così da consentire a quest’ultimi di programmare il proprio tempo libero. Tale obbligo nasce dalla necessità di eseguire con correttezza e buona fede le obbligazioni contrattuali.
Tuttavia, non è possibile trarre una nozione rigida di “ragionevolezza” dell’anticipo nella comunicazione, in quanto quest’ultima è da intendersi in senso “variabile” in relazione al tipo di organizzazione del lavoro, alle caratteristiche concrete del rapporto ed alle necessità di vita del dipendente, sul quale grava fornire in giudizio elementi di valutazione concreti.
Ne consegue la necessità di indicare gli elementi da cui desumere l’effettiva violazione delle regole di correttezza e buona fede e le sue ricadute patrimoniali e non sul dipendente.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (3 settembre 2018, n. 21562), in relazione al ricorso presentato da un lavoratore part-time per il risarcimento del danno derivante dalla tardiva comunicazione dei turni di servizio da parte del proprio datore di lavoro. Secondo i giudici, benché sia consentito all’imprenditore organizzare l’attività lavorativa in turni di servizio in relazione a specifiche esigenze organizzative (art. 41, co. 1, Cost.), ciò nonostante, anche in assenza di disposizioni specifiche di legge o di contratto, i turni di servizio devono essere comunicati ai dipendenti con un ragionevole anticipo, così da consentire loro una programmazione del tempo di vita, garantendo le attività ricreative ed il dovuto riposo (art. 36, co. 3, Cost.).
Nel caso di specie, la Corte di Appello di Venezia, se da un lato riconosceva al part-timer il diritto a percepire il compenso per le ore in esubero rispetto al contratto a tempo parziale a trenta ore convenuto (escludendo dal computo dell’orario da retribuire il lasso temporale quotidianamente destinato alla pausa pranzo), dall’altro, condividendo quanto già rilevato dal giudice di primo grado, affermava che il lavoratore non aveva indicato: le fonti normative o contrattuali dalle quali evincere l’esistenza dell’obbligo di tempestiva comunicazione dei turni; i fatti specifici dai quali ravvisare una violazione dei principi di correttezza e buona fede; le peculiari ricadute patrimoniali (e non patrimoniali) che, incidendo sulla vita lavorativa ed extra lavorativa del dipendente, avrebbero consentito di ravvisare il danno di cui era chiesto il risarcimento.
La Corte di Cassazione, investita della questione, si pone in linea con le statuizioni della Corte territoriale, rigettando il ricorso del lavoratore per assenza di una sufficiente indicazione di elementi idonei sia provare l’effettiva violazione delle regole di correttezza e buona fede e delle ricadute patrimoniali (e non) sul dipendente, sia a consentire un equo bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti contrattuali.
Con la sentenza in commento, la Corte si pronuncia anche sull’inserimento nel contratto part-time di una pausa pranzo non retribuita di trenta minuti, introdotta unilateralmente dal datore di lavoro (in assenza di clausole di variabilità), che, qualora fosse riconosciuta legittima, comporterebbe un allungamento dell’orario lavorativo con conseguente diritto del dipendente a percepire le differenze retributive maturate in relazione alla maggior durata della prestazione.
Preliminarmente, i giudici hanno ribadito che rientra nella nozione di orario di lavoro l’arco temporale comunque trascorso dal dipendente all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli, atteso che, ai fini della misurazione dell’orario, l’art. 1, co. 2, lett. a), D.LGS. n. 66/2003 attribuisce “un espresso ed alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro”. (cfr. Cass. n. 13466/2017). Ne discende che il datore di lavoro, per restare esente dall’obbligo retributivo, deve provare che il lavoratore, nello svolgimento di tali attività connesse allo svolgimento della prestazione, sia libero di autodeterminarsi ovvero non sia assoggettato al suo potere gerarchico.
Qualora, invece, all’interno dell’orario di lavoro sia prevista una pausa nello svolgimento dell’attività lavorativa, in difetto di una previsione di legge o di contratto che ricomprenda tale tempo da dedicare alla pausa nell’orario di lavoro (come nel caso in controversia), “è onere del lavoratore allegare e dimostrare che il tempo della pausa è connesso o collegato alla prestazione, è etero diretto, e non è lasciato, per la sua durata, nella disponibilità autonoma del lavoratore.”