Le affermazioni offensive rivolte all’amministratore delegato su facebook, ma limitatamente alla chat degli iscritti al sindacato, non legittimano il licenziamento.
Nota a Cass., ord.,10 settembre 2018, n. 21965
Gennaro Ilias Vigliotti
L’utilizzo, da parte del lavoratore dipendente, di espressioni ingiuriose, minacciose o denigratorie nei confronti di soggetti che rappresentano l’azienda datrice di lavoro costituisce un’ipotesi di grave violazione disciplinare, idonea a costituire rottura del vincolo fiduciario sotteso ad ogni rapporto contrattuale di lavoro subordinato (art. 2104 c.c.). In particolare, rientrano in tale categoria di condotte, quelle di natura diffamatoria, cioè in grado di ledere il bene giuridico della reputazione della persona o dell’ente giuridico, ossia l’opinione positiva che i consociati hanno di tale soggetto, dal punto di vista etico o sociale.
Tuttavia, tale lesione della reputazione, in quanto legata al contesto collettivo di riferimento, presuppone e richiede la comunicazione con più persone, cioè la presa di contatto dell’autore con soggetti diversi dalla persona offesa, per renderli edotti e partecipi dei fatti lesivi della reputazione di quest’ultimo. Se dunque la comunicazione avviene in ambito privato, cioè all’interno di una cerchia di persone determinate, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione – anche colposa – di fatti e di notizie oggetto di comunicazione, ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni, presidiata dall’art. 15 della Costituzione.
I principi appena espressi sono stati ribaditi da una recente ordinanza della Corte di Cassazione 10 settembre 2018, n. 21965, con la quale è stato deciso un interessante caso svoltosi nell’ambito dei rapporti tra un’azienda tarantina ed i delegati sindacali interni alla stessa.
In particolare, la Società aveva ricevuto presso la propria sede un plico anonimo contenente la schermata di una conversazione privata di un gruppo Facebook dove alcuni dipendenti iscritti ad una sigla sindacale autonoma discutevano delle affermazioni rese dall’amministratore delegato dell’azienda, il quale aveva sconsigliato ad alcuni lavoratori neo-assunti di iscriversi alla sigla in questione perché “voleva la morte dell’azienda”. Nella chat uno dei dipendenti coinvolti, delegato RSA della sigla in questione, si riferiva alla persona dell’Amministratore dell’azienda con espressioni ingiuriose, sebbene non complete e punteggiate (quali, ad es., “faccia di m…” e “cogli…”), motivate dall’aver posto in essere una condotta discriminatoria nei confronti del sindacato da lui rappresentato in azienda. La Società datrice di lavoro aveva ritenuto queste espressioni meritevoli di censura e, conseguentemente, aveva proceduto al licenziamento per giusta causa, tempestivamente impugnato, prima stragiudizialmente e poi giudizialmente, dal lavoratore.
I giudici di merito – prima il Tribunale di Taranto e poi la Corte d’Appello di Lecce – hanno dichiarato il recesso datoriale illegittimo, in quanto le espressioni utilizzate dal dipendente-sindacalista non avevano costituito un’ipotesi diffamatoria, bensì un legittimo esercizio del diritto di critica, in quanto le censure al comportamento del datore di lavoro erano state riportate all’interno di una chat di gruppo sul social network di Facebook, utilizzata non per la diffusione pubblica, ma esclusivamente per il confronto tra soggetti sindacalizzati (e cioè le RSA e gli iscritti ad una determinata sigla).
Ebbene, la Cassazione, confermando la decisione di merito, ha affermato che “la conversazione tra gli iscritti al sindacato era da essi stessi intesa e voluta come privata e riservata, uno sfogo in un ambiente ad accesso limitato, con esclusione della possibilità che quanto detto in quella sede potesse essere veicolato all’esterno (tanto che ciò è avvenuto per mano di un anonimo), il che porta ad escludere qualsiasi intento o idonea modalità di diffusione denigratoria”. Se dunque le espressioni usate dal sindacalista non costituivano diffamazione, allora esse rappresentavano un esercizio lecito e garantito costituzionalmente del diritto alla comunicazione riservata di idee o informazioni, tra cui rientrano anche le forme più evolute di trasmissione del pensiero, come le conversazioni telematiche ed elettroniche (chat di facebook o instagram; whatsapp, sms etc.; in questo senso, si v. la sentenza della Corte Costituzionale n. 20/2017). Venendo meno l’illiceità della condotta, dunque, l’illegittimità del recesso era inevitabile, con conseguente applicazione, in ragione del regime di riferimento per il caso di specie, dell’art. 18, co. 4, Stat. Lav.