Al lavoratore handicappato che lamenti una discriminazione non deve applicarsi il regime probatorio ordinario, ma quello “agevolato” previsto dalle norme speciali in materia di discriminazioni. La nozione di handicap non è condizionata dal previo riconoscimento di una grave disabilità ai sensi della L. n.104/1992 rinvenendosi nella Direttiva UE n. 2000/78.
Nota a Cass. 27 settembre 2018, n. 23338
Annarita Lardaro
L’onere di provare, “quanto meno attraverso presunzioni gravi e rilevanti”, la natura discriminatoria di un licenziamento basato sull’handicap del dipendente incombe sul lavoratore. Quest’ultimo gode di un meccanismo di agevolazione probatoria per il quale può allegare e dimostrare le “circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della discriminazione”.
Il principio è ribadito dalla Corte di Cassazione (27 settembre 2018, n. 2338; così, anche Cass. n. 14206/2013), la quale precisa che:
a) tale onere va definito non attraverso il richiamo integrale ai canoni dell’art. 2729 c.c., ma tenendo conto del criterio di agevolazione “che si esprime in una diversa ripartizione degli oneri di allegazione e prova: il lavoratore deve provare il fattore di rischio, il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, deducendo una correlazione significativa fra questi elementi che rende plausibile la discriminazione; il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione” (cfr. Corte di Giustizia 17 luglio 2008, C-303/06; 10 luglio 2008 C-54/07e 16 luglio 2015 C-83/14);
b) i fattori di discriminazione hanno un carattere “nominato” espressamente richiamato dalla Direttiva UE n. 2000/78, attuata in Italia dal D.LGS. n. 216/2003, che dispone l’applicazione del principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, che includono anche le condizioni di licenziamento, a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato, garantendone la tutela giurisdizionale;
c) secondo l’interpretazione consolidata della Corte di Giustizia (sulla base anche della ratifica da parte della Unione Europea (decisione n. 2010/48) della Convenzione (2006) delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità – UNCRPD – Preambolo, lett. e) ed art. 1, co.2), la nozione di handicap, ai sensi della citata Direttiva n. 2000/78, va intesa nel senso di “una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori» (sentenze 11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, C-363/12, punto 76 ; 18 dicembre 2014, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, C-395/15, punti 41-42. Sul punto, v. anche Cass. n. 6798/2018 e Cass. n. 17867 del 2016).
Tra le fonti internazionali contenenti una definizione di disabilità è opportuno richiamare la Convenzione OIL n. 159/1983, sul reinserimento professionale delle persone disabili, non ratificata dall’Italia; e l’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF) adottata dall’OMS nel 2001. Per l’Italia, oltre alla L. legge n. 118/1971 (mutilati ed invalidi civili), v. la L. n. 104/1992, che, all’art. 3, co. 1, utilizza il termine “persona handicappata”, definendola come colei “che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione»; e la L. n. 68/1999, “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”.