La misurazione dell’orario di lavoro, prevista dall’art. 1, co. 2, lett. a), D.LGS. n. 66/2003 attribuisce espresso rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva, ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro anche se egli rimane inoperoso.
Nota a Cass. ord. 9 Ottobre 2018, n. 24828
Donato Martino
Ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, la legge attribuisce un espresso rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva, ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro anche se egli rimane inoperoso (v. Cass. n. 20694/2015). L’art. 1, co. 2, lett. a), DLGS n. 66/2003, stabilisce, infatti, che è “orario di lavoro: qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.
Da tale disposizione scaturisce un criterio di misurazione dell’orario di lavoro composito, in base al quale anche i lavori discontinui o di semplice attesa e custodia (tabella allegata al R.D. n. 2657/23 e successive modifiche ed integrazioni) sono a tutti gli effetti compresi nella nozione di orario di lavoro e costituiscono lavoro effettivo “e come tale da retribuirsi (e non già da risarcirsi)”.
Il principio è statuito dalla Corte di Cassazione 9 ottobre 2018, n. 24828, la quale si pone in linea con Cass. n. 5023/2009, secondo cui il criterio distintivo tra riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata del lavoro, e semplice temporanea inattività (riferita anche al lavoro discontinuo) rientrante invece nell’orario, consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore, il quale, nella prima ipotesi, “può disporre liberamente di sé stesso per un certo periodo di tempo anche se costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire una qualche limitazione, mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza di lavoro per ogni richiesta o necessità”. (Nel caso sottoposto alla sua attenzione, la Corte aveva escluso che fossero periodi di riposo intermedi quelli durante i quali, nel corso di un viaggio, l’autista di un autotreno, sprovvisto di cabina, lasciava la guida al compagno, “trattandosi, in tal caso, non di un periodo di riposo intermedio vero e proprio, bensì di semplice temporanea attività”).
Allo stesso modo, la Cassazione (n. 13466/2017) ha ritenuto ricompreso nell’orario di lavoro l’arco temporale trascorso dal lavoratore medesimo all’interno dell’azienda “nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli”, a meno che il datore di lavoro non provi che egli era libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico. Di conseguenza, ha considerato orario di lavoro il tempo impiegato dai dipendenti di una acciaieria per raggiungere il posto di lavoro, dopo aver timbrato il cartellino marcatempo alla portineria dello stabilimento, e quello trascorso all’interno di quest’ultimo immediatamente dopo il turno.
In sintesi, dunque, stante la rilevanza della disponibilità del lavoratore presente sul luogo di lavoro, secondo la Cassazione, se il lavoratore non può disporre di un riposo intermedio per sue esigenze, questo lasso temporale di temporanea inattività è lavoro a tutti gli effetti.