La condotta datoriale sistematica e protratta nel tempo, idonea a configurare una situazione di terrorismo psicologico sorretto dalla coscienza di arrecare un danno al dipendente, costituisce mobbing.
Nota a Cass. 10 ottobre 2018, n. 25105
Andrej Evangelista
Il mobbing si configura in seguito all’adozione di comportamenti reiterati da parte del datore o dei colleghi di lavoro, coesi dalla unicità di un piano sistematico e dalla sussistenza di un intento persecutorio.
L’affermazione è della Corte di Cassazione 10 ottobre 2018, n. 25105, la quale, ritenendo dimostrata la condizione di disagio nella quale una lavoratrice era stata costretta ad operare presso la sede dell’azienda, ha ritenuto illegittimo il successivo trasferimento presso altra sede della società ed ha rimarcato “l’evidente condizione di emarginazione in cui la dipendente era costretta ad operare, la mortificazione professionale subita ed il depauperamento del bagaglio di esperienze acquisito, scaturiti dalla adibizione a mansioni non consone al ruolo rivestito ed in condizioni logistiche non proponibili, non disponendo la ricorrente ‘né di un tavolo, né di una sedia’, transitando per le stanze dei colleghi, dalle quali doveva allontanarsi all’arrivo dei rispettivi clienti. E ciò, nonostante il trasferimento fosse stato motivato con esigenze organizzative e commerciali e con la necessità di dotare il suddetto ufficio di un qualificato supporto sia di esperienza gestionale che commerciale”.
Per tali motivi, secondo la Cassazione, la condotta del datore di lavoro, ponendo in essere una serie di comportamenti ostili, con mortificazione ed emarginazione del lavoratore, ha violato gli obblighi di protezione di cui all’art. 2087 c.c., costituendo fatto generatore di danno risarcibile (v., fra le tante, Cass. n. 898/2014).