Il lavoratore le cui dimissioni siano state annullate ha diritto a ricevere le retribuzioni dalla data della sentenza.
Nota a Cass. 8 settembre 2018, n. 21701
Francesco Belmonte
Nell’ipotesi di annullamento delle dimissioni presentate da un lavoratore subordinato, le retribuzioni ad esso spettanti devono essere calcolate dalla data della sentenza che dichiara l’illegittimità dell’atto unilaterale risolutivo, poiché l’annullamento di un negozio giuridico con efficacia retroattiva non comporta di per sé il diritto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal momento delle dimissioni a quello della riammissione in servizio.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (8 settembre 2018, n. 21701), in relazione alle dimissioni di un funzionario dell’Inps, annullate dalla Corte d’Appello di Palermo (n. 892/2012) perché rassegnate in stato di accertata incapacità naturale, ossia di turbamento psichico, tale “da impedirgli di autodeterminarsi liberamente e di apprezzare l’importanza dell’atto in relazione alle sue condizioni economiche e ai suoi rapporti familiari e sociali”. La Corte territoriale aveva condannato l’Ente previdenziale a ripristinare il rapporto di lavoro (riammettendo in servizio il dipendente in mansioni compatibili con il proprio stato di salute psico-fisica) e al risarcimento del danno mediante corresponsione della retribuzione a far data dalla notifica del ricorso introduttivo di primo grado.
Avverso tale pronuncia, l’Inps ha proposto ricorso per Cassazione, contestando non l’annullabilità dell’atto posto in essere dal dipendente in stato di incapacità naturale (art. 428 c.c.), bensì le modalità di calcolo del risarcimento del danno, ritenendo che “la soluzione prescelta dalla Corte d’Appello, di far retroagire gli effetti della sentenza di annullamento ai fini della corresponsione della retribuzione al momento della domanda giudiziale (dalla notifica del ricorso introduttivo) non si riveli convincente con riguardo alle norme e ai principi che regolano la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Così statuendo, la Corte d’Appello avrebbe erroneamente riconosciuto la sussistenza di una mora credendi per il periodo tra la domanda giudiziale di primo grado e la reimmissione in servizio del dipendente, nonostante, a seguito delle intervenute dimissioni, il rapporto di lavoro fosse estinto.”
I giudici di legittimità, investiti della questione, hanno ritenuto fondata la censura dell’Inps, in quanto, stante la natura sinallagmatica del contratto di lavoro, il diritto alla retribuzione discende necessariamente dalla prestazione dell’attività, “e la possibilità del pagamento della prima, in mancanza della seconda rappresenta un’eccezione che deve essere espressamente prevista dalla legge, così come ad esempio avviene nelle ipotesi di malattia o licenziamento non sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo” (in tale termini v., Cass. n.14438/2000; n.13045/2005; n. 2261/2012; n. 22063/2014).
Da ciò discende che la decisione dei giudici palermitani – accertando erroneamente che il dipendente ha diritto alle retribuzioni maturate dalla data di notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e non già dalla data della sentenza che ha dichiarato l’illegittimità dell’atto di dimissioni – è stata cassata in quanto si discosta dai principi applicati al caso in esame.