Nel lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione il legislatore ha previsto ipotesi specifiche di recesso disciplinare, le quali si aggiungono a quelle di origine collettiva e, in caso di contrasto anche parziale, si sostituiscono di diritto a quest’ultime.
Nota a Cass. 11 settembre 2018, n. 22075
Gennaro Ilias Vigliotti
Con il D.LGS. n. 150/2009 il legislatore ha ridisegnato la disciplina riservata ai contratti di lavoro dell’impiego pubblico c.d. “privatizzato” contenuta nel D.LGS. n. 165/2001 (c.d. “Testo Unico del pubblico impiego”), in particolare incidendo sui rapporti tra legge e contratto collettivo nella gerarchia delle fonti.
In particolare, l’art. 55, co. 1, del Testo Unico, come modificato dal richiamato Decreto n. 165/2001, stabilisce che le disposizioni in materia di responsabilità, procedimento e sanzioni disciplinari in esso contenute costituiscono norme imperative ed inderogabili, come tali non modificabili dalla contrattazione collettiva di comparto. In caso di contrasto tra le previsioni collettive e quelle normative in materia, la soluzione è quella della sostituzione automatica e di diritto della clausola legale a quella di origine contrattuale, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419 c. c.
La questione ha avuto risvolti applicativi importanti, soprattutto se si pensa che molti contratti collettivi di comparto prevedevano – e tuttora prevedono – ipotesi specifiche di responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici che, a seguito della riforma del 2009, sono dunque divenute nulle e automaticamente sostituite da quelle legali. In molte Amministrazioni, però, i lavoratori hanno continuato a seguire le prescrizioni collettive, con la conseguenza di creare ampio contenzioso sul punto, in particolare con riferimento alle ipotesi disciplinari più gravi, su tutte quella del licenziamento.
Un caso giudiziale del genere appena descritto è stato esaminato dalla Corte di Cassazione, che lo ha deciso con la sentenza n. 22075 dell’11 settembre 2018.
Un dipendente dell’Università degli Studi di Firenze si era allontanato dal luogo di lavoro senza effettuare l’obbligatoria rilevazione della sua uscita tramite badge e, per questa ragione, aveva ricevuto una contestazione disciplinare che, alla luce della sua recidiva, lo aveva condotto al licenziamento senza preavviso, ai sensi e per gli effetti dell’art. 55-quater del Testo Unico. Il contratto collettivo del comparto Università, però, prevede all’art. 46, co. 4, che, in caso di recidiva nella falsa attestazione della presenza, il dipendente possa essere solo sospeso senza retribuzione fino a 6 mesi e, dunque, non licenziato. Ebbene, il lavoratore dell’Ateneo fiorentino era ricorso al Giudice del lavoro al fine di dichiarare l’illegittimità della sanzione espulsiva per non aver l’Amministrazione applicato la disciplina contrattuale in vigore, privilegiando il successivo disposto normativo. I giudici di merito avevano rifiutato la prospettazione del dipendente, il quale aveva dunque rivolto le sue doglianze in punto di diritto alla Corte di Cassazione.
Il giudici di legittimità, adeguandosi al proprio consolidato indirizzo (su tutti, si v. Cass. n. 24574/2016), ha ribadito, nella sentenza in commento, che “a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2009, [la normativa collettiva] è stata sostituita di diritto, ai sensi degli artt. 1339 e 1419 c.c., dalla normativa di legge, che sulla stessa prevale, D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55, comma 1, nel testo applicabile ratione temporis”.
Nello specifico, il Collegio ha affermato che “[…] il legislatore, nell’introdurre fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo, aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva, ha anche affermato con chiarezza la preminenza della disciplina legale rispetto a quella di fonte contrattuale, che, quindi, non può essere più invocata, ove in contrasto con la norma inderogabile di legge”. L’articolazione delle sanzioni disciplinari nel contratto collettivo di comparto pubblico, dunque, ha valenza ed autonomia limitate ai confini tratteggiati dalla legge, che in materia resta il riferimento inderogabile in ragione dei delicati interessi pubblici coinvolti nella funzione di individuazione dei comportamenti disciplinarmente rilevanti tenuti dal personale dipendente delle Amministrazioni.