La condotta mobbizzante non va valutata in relazione all’illegittimità di singole condotte persecutorie bensì con riguardo all’unitarietà della volontà vessatoria dei vari atti.
Nota a Cass. 27 novembre 2018, n. 30673
Sonia Gioia
“Ai fini della configurabilità del mobbing, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica”. Per converso, la legittimità di un provvedimento può rilevare anche indirettamente in quanto “sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata”.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (27 novembre 2018, n. 30673) che rigetta il ricorso di un lavoratore (con mansioni di fisioterapista), il quale lamentava di essere stato mobbizzato, avendo subito: 1) assegnazioni successive non compatibili con le sue condizioni di salute; 2) ulteriori azioni lesive e persecutorie da parte del datore di lavoro, quali una serie di cambiamenti arbitrari dell’orario di lavoro, pagamenti ritardati delle retribuzioni, comportamenti oltraggiosi ed offensivi, nonché molteplici contestazioni e sanzioni disciplinari conservative.
Da tali condotte, secondo il lavoratore, erano derivati numerose patologie aggravatesi a seguito del succedersi di una serie di infortuni sul lavoro nonché l’insorgenza di nuovi stati morbosi.
La Corte territoriale ha escluso il preteso mobbing, mancando la dimostrazione di una connessione teleologica delle varie azioni o condotte asseritamente lesive, poste in essere da parte datoriale con finalità vessatorie e persecutorie in danno del lavoratore. Peraltro, i giudici hanno evidenziato che era stata prospettata una valenza persecutoria di comportamenti riguardanti la quasi totalità dei dipendenti, mentre la fattispecie ipotizzata, ossia il mobbing, richiedeva condotte reiterate e mirate contro un solo soggetto.
Quanto, poi, alla modifica dell’orario di lavoro, secondo la Corte di merito, trattandosi di un rapporto di lavoro full-time e non a tempo parziale, non sussistevano i motivi ostativi alla legittima facoltà del datore di lavoro di operare unilateralmente modifiche.
Alla luce di queste considerazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore e riassunto gli elementi essenziali del “mobbing”, precisando che il fenomeno consiste in “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità”.
Nello specifico, come più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo contro il dipendente con intento vessatorio(c.d. terrorismo psicologico) e direttamente dal datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi (cfr. Cass. n. 14485/2017);
b) l’evento lesivo della salute o della personalità/dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psicofisica e/o alla dignità del lavoratore;
d) l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi, ossia la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni – di vario tipo ed entità- al dipendente (v. Cass. n. 18836/2013)
e) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (Cass. n. 17698/2014, n. 898/2014 e n. 3785/2009).