La seminfermità mentale, accertata nel giudizio penale, non attenua la gravità, sul piano disciplinare, del possesso da parte del pubblico impiegato di un’ingente quantità di materiale pedopornografico.
Nota a Cass. 7 novembre 2018, n. 28445
Alfonso Tagliamonte
La condotta del lavoratore che detenga anche nell’ambito della sua postazione di lavoro in ufficio un ingente quantità (circa 1000 diversi supporti informatici) di materiale pedopornografico è contraria ai doveri che fanno carico al pubblico dipendente che “proprio in ragione di tale qualità e del fatto di essere immedesimato nelle pubbliche funzioni, è tenuto a tenere condotte corrette e “morali” anche nella vita privata”.
Il principio è affermato dalla Corte di Cassazione (7 novembre 2018, n. 28445) che, nel confermare la sentenza di merito, sottolinea come la Corte territoriale abbia tenuto conto degli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, alla portata soggettiva dei fatti stessi, alle circostanze del loro verificarsi ed all’intensità dell’elemento intenzionale.
Nello specifico, essa: a) sul piano oggettivo, ha fondato il giudizio valoriale di gravità della condotta, non solo sulla imponente quantità di materiale pedopornografico trovato in possesso del prestatore nel suo ufficio, ma anche sul rilievo che “pure la mera detenzione di materiale pedopornografico e la sua agevole riproduzione concorre ad incrementare l’attività di coloro che lo producono per diffonderlo”; b) e sul piano soggettivo, ha rilevato (pur prendendo atto che nel processo penale era stata riconosciuta la seminfermità mentale del dipendente) che l’elevato numero di riproduzioni di cui era stato trovato in possesso anche nella sua postazione lavorativa “costituiva, quanto meno, prova di un atteggiamento psicologico pervicace”.
La Cassazione, chiarisce che la decisione del giudice di merito risulta coerente con le disposizioni contenute nel ccnl Comparto Agenzie Fiscali (28 maggio 2004) che, nell’art. 67, co. 1 lett. a), indica tra i parametri di valutazione per l’applicazione delle sanzioni disciplinari la intenzionalità del comportamento e la rilevanza della violazione di norme o disposizioni. La norma (co.7) dispone inoltre che “le mancanze non espressamente previste nei commi da 2 a 6 sono comunque sanzionate secondo i criteri di cui al comma 1, facendosi riferimento, quanto all’individuazione dei fatti sanzionabili, agli obblighi dei lavoratori di cui all’art. 65, disposizione, questa, che contempla il dovere del lavoratore di conformare la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa, anteponendo il rispetto della legge e l’interesse pubblico agli interessi privati propri ed altrui”.
Il Collegio sottolinea infine che: 1) anche con riferimento alle ipotesi di illeciti disciplinari tipizzati dalla contrattazione collettiva, deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione (di cui all’art. 2106 c.c., richiamato dall’art. 55 del D.LGS. n. 165/2001) rispetto al fatto oggetto di contestazione (v., per tutte, Cass. n. 11160/2018 e n. 28796/2017, in questo sito, con nota di F. IACOBONE, Rispetto del segreto d’ufficio e licenziamento disciplinare); 2) da tale principio consegue la possibilità per il giudice di annullare la sanzione ritenuta “eccessiva”, proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo possibile prevedere, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente conseguenziali ad illeciti disciplinari”; 3) anche una condotta di natura colposa, “per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idonea a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto” (nel caso di specie, il lavoratore aveva, fra l’altro, addebitato alla Corte territoriale di avere omesso di esaminare le risultanze mediche dalle quali emergeva la sua seminfermità mentale ed il fatto che egli si era sottoposto ad una terapia psichiatrica, all’esito della quale si era liberato dalla logica compulsiva e si era riappropriato delle normali abitudini di vita).