È legittima la norma che prevede la nullità del licenziamento a causa di matrimonio a beneficio delle sole lavoratrici.
Nota a Cass. 12 novembre 2018, n. 28926
Francesco Belmonte
L’art. 35, D.LGS. 11 aprile 2006, n. 198 (“Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”), nel prevedere la nullità del licenziamento a causa di matrimonio a tutela della sola lavoratrice, lungi dall’essere discriminatorio (sia sotto il profilo costituzionale, che eurounitario), è «assolutamente legittimo, in quanto rispondente ad una diversità di trattamento giustificata da ragioni, non già di genere del soggetto che presti un’attività lavorativa, ma di tutela della maternità, costituzionalmente garantita alla donna, pure titolare come lavoratrice degli stessi diritti dell’uomo, in funzione dell’adempimento della “sua essenziale funzione familiare”».
In tale linea si è espressa la Corte di Cassazione (12 novembre 2018, n. 28926), la quale, confermando le statuizioni della Corte di Appello di Bologna, ha ritenuto che il lavoratore, qualora venga licenziato poco dopo le nozze, non possa impugnare il provvedimento espulsivo invocando l’art. 35 richiamato, in quanto il divieto di licenziamento contemplato dalla norma (“dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa”), seppur contenuto nel “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”, dispiega i suoi effetti solo nei confronti delle lavoratrici e non anche verso gli uomini.
La Cassazione giunge a tale interpretazione in virtù della peculiare tutela costituzionale assicurata ai diritti della donna lavoratrice e richiama due pronunce della Corte Costituzionale in materia di protezione delle lavoratrici nubende.
In primis, la sentenza 14 febbraio 1969, n. 27, sull’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, ult. co., L. 9 gennaio 1963, n. 7, che, secondo la Corte “è stata emanata in seguito alla prassi diffusa dei licenziamenti delle lavoratrici in occasione del loro matrimonio ed allo scopo di dirimere, nel senso più rispondente alle esigenze della società, il conflitto tra i contrapposti interessi delle lavoratrici alla conservazione del posto di lavoro e dei datori di lavoro all’organizzazione dell’attività di impresa. Sicché, la tutela accordata alle lavoratrici contraenti matrimonio è apparsa sorretta da ragioni coerenti con la realtà sociale e fondate su una pluralità di principi costituzionali” (artt. 2; 3, co. 2; 4; 31; 35, co. 1 e 37, Cost.), “ben giustificanti misure legislative intese a consentire alla donna di poter coniugare il legittimo diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare.”
In secondo luogo, la pronuncia 28 gennaio 1991, n. 61, concernente l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, L. 30 dicembre 1971, n. 1204 [abrogata, in seguito, dall’art. 86, co. 2, lett. a), D. LGS. 26 marzo 2001, n. 151], nella parte in cui prevedeva la temporanea inefficacia anziché la nullità del licenziamento intimato alla donna lavoratrice nel periodo di gestazione e di puerperio. Per la Corte Costituzionale, difatti, “un divieto comportante un mero differimento dell’efficacia, anziché la nullità radicale, del licenziamento intimato alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e di puerperio rappresenta una misura di tutela insufficiente per la donna lavoratrice. La protezione assicurata dall’art. 37 Cost. non si limita, infatti, alla salute fisica della donna e del bambino, ma investe tutto il complesso rapporto che, nel detto periodo, si svolge tra madre e figlio. Ed esso deve essere tutelato con riguardo non solo ai bisogni più propriamente biologici, ma anche alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo collegate allo sviluppo della personalità del bambino. Sicché tali principi, declinati con quello di uguaglianza, impongono alla legge di impedire che dalla maternità, e dagli impegni connessi alla cura del bambino, possano derivare conseguenze negative e discriminatorie per la lavoratrice madre: così che anche la maternità non si traduca, in concreto, in un impedimento alla realizzazione dell’effettiva parità di diritti della donna lavoratrice, con un evidente connessione funzionale alle concrete esigenze di tutela della maternità”.
Alla luce di tali considerazioni, a parere della Cassazione, la previsione richiamata nel caso di specie non può ritenersi discriminatoria, ma legittima, perché rispondente ad una diversità di trattamento per le donne lavoratrici in ragione della tutela della maternità.
Allo stesso tempo, la disposizione in esame non contrasta neppure con la normativa antidiscriminatoria Europea: art. 23, co. 2, CDFUE (secondo cui: “Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevengano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato“) e art. 33, co. 2, CDFUE (per il quale: “Al fine di poter conciliare vita familiare e professionale, ogni persona ha il diritto di essere tutelata contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio“).
In proposito, la CEDU (14 giugno 2018, Cristaldi c. Italia, n. 41) ha poi ribadito – in una decisione nella quale ha peraltro escluso la natura discriminatoria indiretta della privazione di una donna magistrato, durante il periodo di congedo di maternità obbligatorio, dell’indennità giudiziaria speciale, in quanto remunerante l’effettivo svolgimento delle funzioni e pertanto esclusivamente dipendente dalla condizione di “lavoratore in servizio” (senza penalizzazione di alcuna differenza di genere) – che “il congedo di maternità mira a permettere alla madre di riprendersi dal parto e di allattare il neonato se lo desidera, e dunque per la sua stessa natura è specifico delle donne e legato al sesso femminile e pertanto le donne e gli uomini non si trovano in una situazione analoga”.
“Proprio in ragione della costitutiva differenza della persona umana e della sua diversa vocazione generativa e relazionale nell’ambito familiare, costituzionalmente tutelata (artt. 29, co. 1 e 31, co. 2, Cost.),”il legislatore interno ha previsto con il congedo di maternità (artt. 16 ss. D. LGS. n. 151/2001) una più forte tutela “prioritaria” della madre lavoratrice, la cui inosservanza è sanzionata anche penalmente (a differenza che per il congedo di paternità) dall’art. 18 D.LGS. cit. “E ciò appunto per la sottolineata complessità, proprio nel primissimo periodo di vita, del rapporto tra madre e figlio e della coessenzialità della sua protezione con riguardo non solo ai bisogni più propriamente biologici, ma anche alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo collegate allo sviluppo della personalità del bambino.”