In caso di violazione del divieto d’intermediazione di manodopera ex art. 1 della L. n.1369/1960, va escluso l’interesse ad agire dell’Agenzia delle entrate a richiedere il pagamento delle ritenute d’acconto al datore di lavoro interponente, qualora quello interposto le abbia già versate; nel regime successivo all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276/2003, l’omessa instaurazione del rapporto di lavoro impedisce, comunque, l’insorgenza in capo all’interponente dell’obbligo di operare le ritenute.
Nota a Cass. 7 dicembre 2018, n. 31720
Marialuisa De Vita
In caso di intermediazione di manodopera, vietata dalla L. n. 1369/1960, “va escluso l’interesse ad agire dell’Agenzia [delle Entrate] a richiedere il pagamento delle ritenute d’acconto al datore di lavoro interponente, qualora quello interposto le abbia già versate, giacché tale versamento non è suscettibile di rimborso o di ripetizione”.
Per il periodo successivo all’entrata in vigore del D.Lgs n. 276/2003, fermo restando il divieto di intermediazione di manodopera (sub specie di somministrazione irregolare), poiché l’obbligo di ritenuta sui redditi di lavoro dipendente postula, da un lato, l’instaurazione del rapporto di lavoro su domanda del lavoratore e, dall’altro, i mancati pagamenti del somministratore, ne discende che l’omessa costituzione del rapporto di lavoro “impedisce comunque l’insorgenza in capo all’interponente dell’obbligo di operare le ritenute”.
Tali principi sono stati affermati dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 31720 del 7 dicembre 2018.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle entrate, in relazione agli anni d’imposta dal 2000 al 2003, riqualificava come intermediazioni di manodopera vietate alcuni contratti di appalto stipulati da una società. L’Ufficio contestava, tra le altre cose, l’inosservanza dell’obbligo di versamento delle ritenute IRPEF sui compensi corrisposti ai lavoratori dipendenti delle imprese appaltatrici.
Si discuteva così delle conseguenze fiscali dell’art. 1, co. 1, della L. n. 1369/1960 (abrogata dal D.Lgs n. 276/2003) che, come noto, vietava a un imprenditore di affidare in appalto, in subappalto o in qualsiasi altra forma, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque fosse la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferivano. In tale ipotesi, i prestatori di lavoro erano considerati ex lege, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente aveva utilizzato le loro prestazioni (art. 1, co. 5 L. n. 1369/1960). Pertanto, solo sull’appaltante – datore di lavoro effettivo – erano ritenuti gravare tutti gli obblighi, anche fiscali, scaturenti dal rapporto di lavoro.
Il successivo D.Lgs.10 settembre 2003, n. 276, ha confermato il divieto di interposizione di manodopera e/o di somministrazione irregolare. Ai sensi dell’art. 29, co. 1, di tale ultimo decreto, elementi essenziali di un appalto genuino sono:
– l’organizzazione dei mezzi da parte dell’appaltatore;
– il rischio di impresa in capo all’appaltatore;
– l’esercizio di poteri di etero-direzione sui lavoratori da parte dell’appaltatore.
Venendo a mancare tali requisiti, la non genuinità dell’appalto determina l’ipotesi di interposizione illecita di manodopera. Si ha, dunque, interposizione illecita di manodopera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una mera prestazione lavorativa, riservandosi i compiti di gestione amministrativa del rapporto di lavoro, ma senza un effettivo esercizio dei poteri direttivi nei confronti dei lavoratori (cfr. Cass. n. 27213/2018, in questo sito con nota di F. DURVAL, Criteri identificativi della interposizione fittizia di manodopera). In tale ipotesi:
– il lavoratore è legittimato a richiedere, ai sensi dell’art. 29, co. 3 bis, D.Lgs n. 276/2003, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’appaltante con effetto ex tunc (ovvero dalla data di effettivo inizio dell’appalto irregolare);
– i pagamenti a titolo retributivo e contributivo effettuati dall’appaltatore valgono a liberare il committente fino a concorrenza delle somme versate;
– gli atti di gestione del rapporto compiuti dall’appaltatore sono anch’essi imputabili direttamente al committente.
Ciò premesso, la Suprema Corte, accogliendo il ricorso promosso dall’Ufficio, ha qualificato i contratti in esame come intermediazioni vietate di manodopera, non rinvenendo in capo alle società appaltatrici gli elementi tipici di un appalto genuino.
Ne deriva, per la Cassazione, quanto all’obbligo di versamento delle ritenute d’acconto sui compensi corrisposti ai lavoratori, che “in caso d’intermediazione di manodopera vietata, tra gli obblighi posti a carico del datore di lavoro effettivo, ossia dell’interponente, alle dipendenze del quale ex lege sono i lavoratori intermediati, v’è anche quello di operare la ritenuta d’acconto”.
Tuttavia, se il versamento delle ritenute è stato effettuato dall’interposto (nel caso di specie, le società pseudo-appaltatrici), l’Agenzia non può pretendere il versamento delle ritenute anche da parte dell’interponente, “giacché tale versamento non è suscettibile di rimborso o di ripetizione” e perché, altrimenti, si verrebbe a creare un’indebita duplicazione. Ne consegue che, così, l’interposto né può chiedere il rimborso al Fisco, non sussistendo con esso alcun rapporto tributario, in quanto l’unico soggetto passivo dell’obbligo di ritenuta è il datore di lavoro interponente; né può esperire un’azione di ripetizione dell’indebito ex art. 2036 c.c., co. 1 e 3, in quanto non è possibile ipotizzare tanto un errore scusabile dell’interposto, quantoche quest’ultimo abbia ignorato che l’effettivo datore di lavoro fosse l’interponente.
In relazione al periodo successivo all’entrata in vigore del D.Lgs. 276/2003, la Suprema Corte afferma che, per verificare a chi compete l’obbligo di ritenuta, occorre accertare, innanzitutto, l’instaurazione, su domanda del lavoratore, di un rapporto di lavoro, in virtù del quale il datore di lavoro effettivo assume la qualità di sostituto d’imposta. Tale iniziativa da parte del lavoratore è un elemento imprescindibile tanto che, in sua assenza, “nessun rapporto di lavoro s’instaura e, quindi, nessuna sostituzione si configura. Per conseguenza, nessun obbligo di ritenuta insorge in testa all’interponente”. Nel caso in cui, invece, risulti instaurato il suddetto rapporto di lavoro occorre accertare – precisa la Corte di Cassazione – che nessun versamento delle ritenute sia stato effettuato dall’interposto. Ciò costituisce un corollario del principio di responsabilità solidale posto dall’art. 27, co. 2, D.Lgs. n. 276/2003 (ora sancito dall’art. 38, co. 3 del D.Lgs. n. 81/2015), secondo cui le eventuali retribuzioni percepite dai lavoratori ed i contributi versati dal datore di lavoro fittizio liberano il datore di lavoro effettivo dal debito corrispondente fino alla concorrenza delle somme effettivamente pagate.
In definitiva, nel regime successivo al D.Lgs. n. 276/2003 l’obbligo di ritenuta sui redditi di lavoro dipendente in capo all’interponente postula, da un lato, l’instaurazione del rapporto di lavoro su domanda del lavoratore e, dall’altro, i mancati pagamenti del somministratore.