Accusare le associazioni che sostengono le persone richiedenti asilo di lucrare sul traffico di clandestini concretizza una discriminazione collettiva creando altresì un clima ostile ed intimidatorio e ledendo la dignità dei “clandestini”.
Nota a App. Brescia 18 gennaio 2019, n. 96
Sonia Gioia
Postare sui social un messaggio con l’accusa di “lucrare sul traffico di clandestini” configura discriminazione ai sensi degli artt. 3 e 4, D.LGS. n. 215/2003.
La condanna per condotta discriminatoria è di App. Brescia (18 gennaio 2019) in relazione al post di una fotografia di un quotidiano avente ad oggetto l’elenco di vari soggetti gestori di progetti di accoglienza di cittadini stranieri. Al post era allegato il seguente commento: “Questo è l’elenco di tutte le cooperative e fondazioni e altri operatori che con la faccetta misericordiosa di chi fa la beneficenza stanno invece LUCRANDO sul traffico di clandestini” ”questi enti prendono più di 1000 EURO AL MESE PER OGNI IMMIGRATO! Tutti soldi nostri, ma se il Governo proprio vuole usare i nostri soldi per mantenere qualcuno, che mantenga i suoi cittadini almeno, non quelli dell’Africa!”.
Il Collegio ritiene che il post in questione, attribuendo il fine lucrativo agli enti elencati e parlando di situazioni di clandestinità, può essere considerato molesto ex art. 2, co. 3, D. LGS. n. 215/2003, che accosta ed equipara alle ipotesi di discriminazione diretta e indiretta previste al co.1, “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo”.
Nello specifico, l’affermazione relativa allo scopo di lucro, “visibile ad un numero potenzialmente illimitato di utenti del social network in quanto pubblica e più volte condivisa, è sicuramente idonea a creare “un clima intimidatorio” e “ostile” nei confronti delle associazioni, clima che può avere senz’altro ripercussioni dirette sui servizi resi ai richiedenti asilo”.
L’uso del termine “clandestini”, riferito ai richiedenti asilo (ai quali l’art. 10 Cost. attribuisce il diritto di fare ingresso nel territorio dello Stato e presentare richiesta di protezione internazionale), equivale, poi, ad “insinuare che tali soggetti siano in posizione di illegalità, con “l’effetto di violare la dignità” della suddetta categoria di individui”. Inoltre, la frase contestata, secondo i giudici, può configurare una ritorsione ai sensi dell’art. 4 bis, D.LGS. n. 215/2003, secondo cui “la tutela giurisdizionale di cui all’art. 4 si applica altresì avverso ogni comportamento pregiudizievole posto in essere nei confronti della persona lesa da una discriminazione diretta o indiretta o di qualunque altra persona, quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere la parità di trattamento”.