Per porre fine ad un rapporto di lavoro non è sufficiente un tacito mutuo consenso ma è necessaria una comune volontà delle parti.
Nota a Cass. 13 febbraio 2019, n. 4224
Flavia Durval
Il rapporto di lavoro a tempo determinato può cessare per mutuo consenso, da intendersi non come inerzia del lavoratore, ma come “comportamento inequivoco che evidenzi il completo disinteresse di entrambe le parti alla prosecuzione del rapporto stesso” (Cass. 5 agosto 2008, n. 21141), non essendo “sufficiente la mera discontinuità della prestazione lavorativa” (Cass. 16 marzo 2011, n. n. 6252).
Il principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione 13 febbraio 2019, n. 4224, che ha più volte rilevato che “affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle stesse parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre fine ad ogni rapporto di lavoro” (così, testualmente, Cass. 30 settembre 2014, n. 20605; v. anche, nei medesimi termini, tra le tante, Cass. 12 aprile 2012, n. 5872; Cass. 10 aprile 2012, n. 5677; Cass. 12 dicembre 2011, n. 26590; Cass. 16 novembre 2011, n. 23986, Cass. 11 maggio 2011, n. 10346; Cass. 3 gennaio 2011, n. 65; Cass. 18 novembre 2010, n. 23319; Cass. 15 novembre 2010, n. 23057; Cass. 19 gennaio 2010, n. 839).
Nella specie, la Cassazione ha confermato la sentenza impugnata della Corte di Appello di Catanzaro, che aveva correttamente ritenuto insussistente la cessazione del rapporto di lavoro oggetto di esame per mutuo consenso tacito. Il Collegio ha inoltre riconosciuto alla lavoratrice interessata il risarcimento del danno derivante dalla mancata prosecuzione del rapporto, disciplinato dall’art. 32 della L. n. 183/2010, entrata in vigore nelle more del giudizio di appello con rinvio della causa alla Corte di Appello di Reggio Calabria al fine di “quantificare l’indennità spettante alla lavoratrice (ai sensi dell’art. 32 citato), per il periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronunzia del provvedimento con il quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro, con interessi e rivalutazione su detta indennità da calcolare a decorrere dalla data della pronunzia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato” (cfr., Cass. n. 14461/2015 e Cass. n. 3062/2016).