Il dipendente può conoscere gli apprezzamenti e le valutazioni di tipo soggettivo espressi dall’azienda anche in sede di colloquio di lavoro.
Nota a Cass. 14 dicembre 2018, n. 32533
Maria Novella Bettini e Alfonso Tagliamonte
Il dipendente ha pieno accesso ai propri dati sia di carattere oggettivo che soggettivo. Il diritto del dipendente all’accesso (ex art. 7, D.LGS. n. 196/2003, oggi abrogato dall’art. 27, co. 1, lett. a), n. 2), D.LGS. 10 agosto 2018, n. 101, e sostituito dall’art. 15 del Regolamento UE n. 2016/679), ai dati contenuti in documenti riguardanti un rapporto di lavoro dipendente (ivi compresi i giudizi, le opinioni o altri apprezzamenti/valutazioni di tipo soggettivo) non può infatti essere inteso, “in senso restrittivo come mero diritto alla conoscenza di eventuali dati nuovi ed ulteriori rispetto a quelli già entrati nel patrimonio di conoscenza e nella disposizione dello stesso soggetto interessato al trattamento dei propri dati”. Ciò, poiché la ratio della disposizione legislativa è quello di “garantire la tutela della dignità e riservatezza dell’interessato nonché la verifica “ratione temporis” dell’inserimento, della permanenza, o della rimozione, di dati che lo riguardano, indipendentemente dalla circostanza che tali eventi fossero già stati portati alla sua conoscenza per altra via”. In particolare, il diritto di accesso ai propri dati personali può essere finalizzato “alla acquisizione di elementi probatori al di fuori del processo a fini difensivi”, dal momento che il tenore letterale dell’art. 7, D.LGS. cit. non prescrive alcuna limitazione in merito alle concrete finalità per le quali il diritto di accesso può essere esercitato.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (14 dicembre 2018, n. 32533) relativamente al procedimento disciplinare adottato nei confronti di un funzionario di banca, che aveva proposto ricorso al Garante per la protezione dei dati personali in ordine alla sua richiesta di ottenere la comunicazione dei dati personali che lo riguardavano, contenuti in due documenti elaborati dall’istituto di credito in conformità alla circolare interna che regolamenta il procedimento disciplinare.
La banca, invitata dall’Ufficio del Garante a fornire riscontro alle richieste del lavoratore, aveva replicato di aver messo a disposizione tutte le informazioni sull’apertura del procedimento disciplinare, ma aveva negato l’accesso ad altri documenti, poiché, a suo dire, contenevano dati della società «di uso strettamente interno… anch’essi protetti dalla normativa sulla privacy” e considerati “espressione del diritto di organizzare e gestire la propria attività” ex art. 41 Cost. Secondo la banca, i dati in questione erano “atti endoprocedimentali” che riguardano il momento formativo della volontà datoriale e che non assumono alcun rilievo rispetto al contrapposto diritto di difesa del ricorrente (diritto già garantito nella messa a disposizione di tutta la documentazione oggettivamente rilevante).
Il Garante, tuttavia, ha affermato che il D.LGS. n. 196/2003, art. 8, co. 4, riconosce espressamente il carattere di dato personale dei cd. dati valutativi (e, dunque, anche degli atti propedeutici alla formazione della volontà aziendale), ovvero di quelle informazioni personali (che non hanno carattere oggettivo) relative “a giudizi, opinioni o ad altri apprezzamenti di tipo soggettivo” e che, anche rispetto a questi ultimi, è possibile esercitare il diritto di accesso (ex art. 7, D.LGS. cit.).
Tali affermazioni sono condivise dalla Corte di Cassazione (che conferma Trib. Roma 28 gennaio 2014, n. 21769), la quale, nel rilevare che non ci sono limiti in ordine alle finalità per le quali può essere esercitato il diritto di accesso e che tale diritto spetta anche ai candidati che si presentano per un colloquio di lavoro (anche se, in tal caso, come noto, il datore di lavoro deve inserire -nel form per la raccolta del curriculum – solo i dati necessari alla verifica dei requisiti di chi aspira all’assunzione – v. Garante della privacy provvedimento n. 497/2018), ha respinto l’ulteriore eccezione dell’istituto bancario che evidenziava la “mancata applicazione del principio di cd. gerarchia mobile, in ragione del quale, nel caso di conflitto tra il diritto alla riservatezza ed altri diritti di pari dignità costituzionale (quali, nella specie, la riservatezza di dati afferenti a terzi, clienti e/o dipendenti della banca; il diritto di difesa della banca in giudizio; il diritto alla libera organizzazione d’impresa ed all’esercizio da parte dell’imprenditore del potere disciplinare nei limiti consentiti dalla legge), il giudice deve procedere ad un equo bilanciamento dei vari diritti nel caso concreto, valutando ponderatamente la specifica situazione sostanziale”.