La mancata assunzione come capotreno di una donna, per non aver raggiunto l’altezza stabilita in maniera uniforme per i candidati di ambedue i sessi, costituisce una discriminazione di genere indiretta.
Nota a Cass. 4 febbraio 2019, n. 3196
Francesco Belmonte
Il limite staturale di 160 cm. prescritto nella procedura di assunzione di personale con qualifica di Capo Servizio Treno costituisce una discriminazione indiretta, in quanto “non oggettivamente giustificato, né comprovato nella sua pertinenza e proporzionalità alle mansioni comportate dalla suddetta qualifica” (in violazione dell’art. 4, L. n. 125/1991, come modificato dall’art. 2, D.LGS. n. 145/2005 di attuazione della Direttiva 2002/73/CE, poi confluito nell’art. 25, D.LGS. n. 198/2006).
Ed infatti, “una norma che prevede una statura minima identica per uomini e donne, presupponendo erroneamente la non sussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne, comporta una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime”. Il giudice ordinario, pertanto, è tenuto ad apprezzarne la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni (così, Cass. n. 23562/2007, e, in termini analoghi, Cass. n. 30083/2017, in questo sito, con nota di M. BONI, Discriminazione per statura e per lingua, e Cass. n. 25734/2013) e considerando se l’azienda, non ha, come avrebbe dovuto, provato (con onere probatorio a suo carico), “la rigorosa rispondenza del limite staturale alla funzionalità e alla sicurezza del servizio da svolgere” (App. Roma n. 7475/2014), dimostrando una congrua giustificazione della statura minima con riferimento alle mansioni comportate dalla qualifica.
Con particolare riguardo al profilo probatorio, il Collegio precisa che, l’art. 40 D.LGS. n. 198/2006 – nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità (sia per le discriminazioni dirette, che per quelle indirette) – non stabilisce un’inversione dell’onere, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da CGUE 21 luglio 2011, C-104/10), “l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso”.