Le transazioni poste in essere volontariamente dai lavoratori con consapevolezza dei propri diritti sono valide.
Nota a Cass., ord., 6 marzo 2019, n. 6358
Flavia Durval
I lavoratori che agiscono con il consapevole e deliberato proposito di porre in essere una precisa manifestazione di volontà negoziale, con cui dispongono liberamente delle situazioni giuridiche che li riguardano al fine di porre fine ad una controversia e di prevenire ed evitare qualsiasi eventuale contenzioso giudiziale, sono valide.
Il principio è sottolineato dalla Corte di Cassazione (6 marzo 2019, n. 6359) relativamente ad una vicenda in cui i lavoratori, anziché dichiarare semplicemente «di essere soddisfatti e di non avere null’altro a pretendere», hanno espressamente pattuito: a) che la società datrice di lavoro avrebbe erogato, a ciascuno di loro, una somma ulteriore (pari ad € 1.000,00), “in aggiunta a quanto dovuto per trattamento di fine rapporto, a titolo di transazione generale novativa”; b) e che avrebbero percepito il predetto importo a fronte delle rinunzie alla rivendicazione di pretese connesse al “rapporto di lavoro (ormai) pregresso”, tra le quali rientrava il premio di risultato oggetto della controversia.
La Corte ha desunto che i lavoratori avevano operato con chiara e piena consapevolezza e senza alcun vizio di consenso nella disposizione degli specifici diritti oggetto dei negozi transattivi. E, a conferma della piena validità di tali negozi, ha rilevato che i lavoratori, allo scopo di rivendicare le somme pretese non sì erano cautelati tempestivamente, impugnando la loro dichiarazione nel termine di decadenza (sei mesi) di cui all’art. 2113 c.c.; norma, questa, chiaramente finalizzata “a non lasciare indefinitamente, o comunque per lungo tempo, sospese ed incerte le situazioni giuridiche connesse al rapporto di lavoro ed a precludere quindi l’eventualità che possa taluno dei soggetti interessati, con una impugnazione “sine die”, porre di nuovo sub iudice la res (non più) controversa, così ledendo l’affidamento creato nella controparte con l’atto di disposizione del proprio diritto, liberamente posto in essere” (v. Corte Cost. n. 77/1974).
Il che, secondo il Collegio, è indice sintomatico della piena validità della predetta transazione a cui si aggiunge la “chiara e ben determinata volizione dei contraenti di prevenire e chiudere definitivamente, mediante le reciproche concessioni, qualsiasi attuale o potenziale controversia”.
Nello specifico, la Cassazione, per provare che il negozio transattivo non è viziato, fa leva:
1) sulle dichiarazioni esteriorizzate dai lavoratori. Nell’accordo, infatti, essi avevano dichiarato di considerare “rinunciata o transatta, in via definitiva e generale, ogni eventuale ragione di credito” che poteva essere vantato “in dipendenza del pregresso rapporto di lavoro ed in ordine ai modi e ai tempi della sua risoluzione”. A titolo esemplificativo, nella transazione, si fa riferimento ad una serie di elementi, quali: “diverso inquadramento, maggiori retribuzioni e contribuzioni previdenziali, aumenti periodici di anzianità, per trattamento di missione, di trasferimento o distacco, per ferie e festività non godute, lavoro straordinario e relative aliquote, festivo e notturno, eventuale incidenza dei predetti titoli sul TFR, risarcimento danni a qualunque titolo, nonché per qualsiasi altro motivo, anche se non espressamente menzionato, ma comunque connesso con l’intercorso rapporto di lavoro o con qualsiasi altro rapporto intrattenuto con la società”;
2) sulla evidente correlazione tra la situazione di vantaggio – scaturente dalla erogazione di una somma aggiuntiva al TFR e la rinuncia ad altre pretese che avrebbero eventualmente potuto essere avanzate. Tale correlazione causale tra le reciproche concessioni tese, inequivocabilmente, ad evitare qualsiasi res litigiosa costituisce prova della validità della transazione, peraltro, come detto, non contestata nel termine di decadenza normativamente sancito (art. 2113 c.c.).