Il lavoratore ha l’onere di allegare le circostanze significative della sua pretesa dequalificazione. L’eventuale danno non patrimoniale ha natura composita (biologico, morale ed esistenziale) ma va liquidato unitariamente.
Nota a Cass. 12 marzo 2019, n. 7057
Fabio Iacobone
Nell’ipotesi di demansionamento (o dequalificazione) grava sul lavoratore l’onere di prospettare le circostanze di fatto alla base del suo ricorso con specifico riguardo all’allegazione degli elementi fattuali significativi dell’illegittimo esercizio del potere datoriale (“e non anche quelli idonei a dimostrare in modo autosufficiente la fondatezza delle pretese azionate”). Diversamente, spetta al datore di lavoro prendere posizione, “in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda”. In particolare, egli può allegarne altri, “indicativi del legittimo esercizio del potere direttivo”. E’ invece compito del giudice “valutare se le mansioni assegnate siano dequalificanti, potendo egli presumere, nell’esercizio dei poteri, anche officiosi, a lui attribuiti, la fondatezza del diritto fatto valere anche da fatti non specificamente contestati dall’interessato, nonché da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo”.
Questi i chiarimenti della Corte di Cassazione (12 marzo 2019, n. 7057; conformi, v. Cass. n. 4211/2016 e n 15527/2014), la quale ha altresì sintetizzato taluni principi fondamentali in tema di risarcimento del danno:
a) in caso di dequalificazione professionale, spetta al giudice del merito desumere l’esistenza del relativo danno, di natura patrimoniale, il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l’entità in via equitativa, pure mediante presunzioni (ex art. 2729 c.c.), valorizzando gli “elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti allegati dal lavoratore, relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto” (in tal senso, Cass. n. 25743/2018 e Cass. n. 19778/2014).
b) Quanto alla categoria generale del danno non patrimoniale, la Corte ne rileva la natura composita, poiché lo stesso si articola in differenti: danno morale, biologico ed esistenziale, i quali possono ricorrere cumulativamente (del che occorre tenere conto in sede di liquidazione unitaria).
c) Al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato oppure sia stato erroneamente sottostimato, rileva non il “nome” – “biologico”, “morale”, “esistenziale” – assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall’attore ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice.
d) Si verifica, cioè, una duplicazione di risarcimento solo quando lo stesso pregiudizio venga liquidato due volte, pur se con l’uso di nomi diversi. Ciò, in adesione al principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza n. 26972/ 2008 delle S.U. della Corte medesima, che “impone una liquidazione unitaria del danno e non una considerazione atomistica dei suoi effetti”.