A cura di M.N. Bettini con la collaborazione di: Flavia Durval e Sonia Gioia
Una volta raggiunto l’accordo sindacale e dopo aver comunicato il recesso ad ognuno dei lavoratori licenziati, il datore di lavoro deve trasmettere (per iscritto ed entro 7 giorni dalla comunicazione dei recessi) all’ITL, alla Commissione regionale per l’impiego e alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale (di cui all’art. 4, co. 2, L. 23 luglio 1991, n. 223) l’elenco dei lavoratori licenziati, con nome, residenza, qualifica e inquadramento di ciascun prestatore licenziato. Sul datore grava altresì l’obbligo di dare “puntuale indicazione delle modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta”, ovverosia di divulgare analiticamente le modalità selettive in concreto seguite per la formazione della graduatoria, in modo che non risulta impedito ai lavoratori, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi il controllo della correttezza dell’operazione e la corrispondenza agli accordi raggiunti (Cass. 15 febbraio 2001, n. 2188, FI, I, 1566, la quale precisa che il lavoratore ha facoltà di effettuare le proprie allegazioni dopo aver conosciuto quelle del datore di lavoro; Cass. 14 ottobre 2000, n. 13727, MGL, 2000, 1355).
Potrebbe, diversamente, verificarsi il caso che un’azienda attribuisca diversi pesi ponderali in percentuale all’anzianità di servizio ed alle esigenze tecnico-produttive (ad es., peso ponderale pari al 25% per il livello posseduto e pari ad un ulteriore 25% per la professionalità, a sua volta valutata mediante l’applicazione di 5 sotto-criteri (competenza rispetto al livello, autonomia operativa e decisionale rispetto al livello, capacità relazionali e di lavoro in team, capacità di rispetto delle tempistiche assegnate e padronanza della lingua inglese). In tal caso, se nella comunicazione di fine procedura, il datore di lavoro ometta di indicare le concrete modalità con cui era stato attribuito, a ciascun lavoratore, il complessivo punteggio relativo alla professionalità, si configura una mancata puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta e, perciò, una carenza di trasparenza delle scelte datoriali, con lesione della funzione sindacale di controllo e valutazione e conseguente illegittimità del licenziamento (Cass. 6 settembre 2018, n. 21718; Cass. 13 dicembre 2016, n. 25554, RIDL, 2017, II, 129, con nota di L. VENDITTI, Licenziamento collettivo: l’indefettibile trasparenza della selezione).
Il licenziamento collettivo intimato senza puntuale indicazione (ex art. 4, co. 9, L. cit.) delle modalità applicative dei criteri di scelta è illegittimo (Cass. 13 dicembre 2016, n. 25554, cit.; v. anche Trib. Roma 16 novembre 2017, ADL, 2018, 324, con nota di C. FAVRETTO, Sulla delimitazione dell’ambito oggettivo di riferimento per i licenziamenti collettivi: comunicazione di avvio della procedura, area di comparazione ed efficacia dell’accordo collettivo). Pertanto, nell’applicazione dei criteri di scelta, legali o contrattuali, ai fini del licenziamento collettivo, l’impresa deve improntare la propria condotta ai parametri della massima trasparenza; “a tale fine, l’impresa ha l’onere di indicare nella lettera di licenziamento tutti gli elementi utili a dimostrare di aver applicato in modo corretto i suddetti criteri” (App. Roma 19 novembre 2015, ADL, 2016, 358, con nota di S. BRUN, Trasferimento d’azienda e licenziamento collettivo: la tutela dell’occupazione e lo spirito “disatteso” delle recenti riforme (365)).
Con riguardo all’espulsione-riassunzione di lavoratori impiegati in imprese che svolgono attività di servizi in appalto, la legge (art. 7, co. 4-bis, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, aggiunto, in sede di conversione, dall’art. 1, co. 1, L. 28 febbraio 2008, n. 31) dispone che: “…al fine di favorire la piena occupazione e di garantire l’invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori, l’acquisizione del personale già impiegato nel medesimo appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non comporta l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, in materia di licenziamenti collettivi, nei confronti dei lavoratori riassunti dall’azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative o a seguito di accordi collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative” (v. Cass. 2 novembre 2016, n. 22121, LG, 2017, 355, con nota di E. C. SCHIAVONE, Cessazione di appalto di servizi e licenziamento collettivo – Quando è legittima la deroga alla I. n. 223/1991?).
Allo stesso modo, in una fattispecie di licenziamento per fine appalto in cui vi era stata, oltre alla cessazione dell’appalto, la conseguente soppressione del posto cui era impiegato il lavoratore, la Cassazione ha precisato che la validità del recesso non è subordinata all’applicazione, in via analogica, dei criteri di scelta previsti nella selezione del lavoratore in esubero dalla procedura di licenziamento collettivo ex art. 5, L. cit. (Cass. 27 ottobre 2017, n. 25653, annotata in questo sito da K. PUNTILLO, Licenziamento per cessazione dell’appalto e criteri di scelta).
La circostanza cioè che alla base del licenziamento sia posto il venir meno dell’appalto cui era addetto il lavoratore espulso insieme ad altri, non rende necessario effettuare una comparazione con tutto il personale aziendale preposto alla stessa attività, anche se le mansioni cui era addetto il dipendente risultino identiche a quelle di altri colleghi.
Il recesso che risulti viziato per violazione dei criteri di scelta (inosservanza che può emergere anche all’interno di una procedura carente sotto il profilo formale delle indicazioni relative alle modalità di applicazione dei criteri selettivi, v. Cass. 28 ottobre 2019, n. 27501, annotata in questo sito da F. BELMONTE, Licenziamenti collettivi: reintegra in caso di criteri illegittimi), è sanzionato, per i vecchi assunti (secondo il rinvio operato dall’art. 5, co. 3, L. cit., all’art. 18, co. 4, Stat. Lav.) con la reintegrazione e la condanna al risarcimento del danno; diversamente, per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del D.LGS. 4 marzo 2015, n. 23 (come mod. dal D.L. 12 luglio 2018, n. 87 – c.d. Decreto “Dignità” -, conv. dalla L. 9 agosto 2018, n. 96), la sanzione applicabile è rappresentata unicamente dal pagamento di un’indennità risarcitoria, con conseguente risoluzione del rapporto di lavoro (art. 10, D.LGS. n. 23/2015, che rinvia all’art. 3, co. 1, del medesimo decreto).
Per la Cassazione, tali rimedi non sono esperibili “indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto tra coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto al licenziamento” (Cass. 1 dicembre 2016, n. 24558, richiamata in motivazione da Cass. 19 marzo 2019, n. 7642, e Cass. 18 marzo 2019, n. 7591).
Nello specifico, l’inosservanza dei criteri di scelta, illegittimi per violazione di legge ovvero illegittimamente applicati in difformità dalle previsioni legali o collettive, dà luogo, per i dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015, all’annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria (commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto) in misura non superiore alle 12 mensilità, da cui vengono dedotti i c.d. aliunde perceptum (ossia, “quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative”) e percipiendum (cioè, “quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”). A ciò si aggiunge il versamento, da parte del datore di lavoro, dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione (art. 18, co. 4, Stat. Lav.).
Qualora, invece, il prestatore non voglia essere reintegrato, egli ha facoltà di optare (“entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione”) per una indennità di 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (non assoggettata a contribuzione previdenziale), sostitutiva della reintegrazione (l’opzione determina la risoluzione del rapporto) (art. 18, co. 3, Stat. Lav. a cui rinvia il co. 4). [Cass. 2 febbraio 2018, n. 2587 e Cass. 26 settembre 2016, n. 18847, la quale specifica che l’art. 18 Stat. lav., come novellato dalla L. n. 92/2012, è norma che riguarda tutte le modalità di applicazione dei criteri sui licenziamenti collettivi e, quindi, “non solo l’errata valutazione o applicazione dei punteggi assegnati, ma anche le modalità con cui essi sono attribuiti”. Si veda anche Cass. 17 luglio 2018, n. 19010, secondo cui quando la comunicazione (ex art. 4, co. 9, L. n. 223/1991), “carente sotto il profilo formale delle indicazioni relative alle modalità di applicazione dei criteri di scelta, si sia risolta nell’accertata illegittima applicazione di tali criteri, vi è annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità” ai sensi dell’ art. 18, co. 4, Stat. Lav. come risultante dall’art. 1, co. 42, L. n. 92/2012”; Cass. 29 settembre 2016, n. 19320, RGL, 2017, II, 41 (con nota di F. LAMBERTI, In tema di incompletezza formale della comunicazione di cui all’art. 4, c. 9, l. n. 223/1991) per cui, qualora sia accertata l’inadeguatezza della comunicazione datoriale circa le modalità applicative dei criteri di scelta, al lavoratore spetta (nel regime della L. n. 92/2012) soltanto la tutela indennitaria prevista per i vizi procedurali del licenziamento; mentre “la tutela reintegratoria è accordata esclusivamente nell’ipotesi di violazione sostanziale dei criteri di scelta”].
La tutela riservata ai c.d. vecchi assunti non è invece applicabile nei confronti dei lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del D.LGS. n. 23/2015 (7 marzo 2015), per i quali la legge sostituisce il rimedio reintegratorio con la medesima tutela indennitaria prevista nelle ipotesi di violazione di una delle regole procedurali contemplate dall’art. 4 della L. n. 223/91, che si sostanzia nella risoluzione del rapporto di lavoro e nel pagamento di un indennizzo (non assoggettato a contribuzione previdenziale) pari a 2 mensilità – dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto – per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità (art. 10, D.LGS. n. 23/2015 che rinvia al precedente art. 3, co. 1). [Simile indennità – in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale (Corte Cost. 8 novembre 2018, n. 194, in questo sito, con nota di P. PIZZUTI, La corte Costituzionale cambia le tutele crescenti) che ha dichiarato incostituzionale tale meccanismo di quantificazione del risarcimento, ancorato (unicamente) all’anzianità di servizio del prestatore licenziato – dovrà essere determinata dal giudice secondo parametri ulteriori all’anzianità lavorativa e già enunciati dall’art. 18, co. 5, Stat. Lav. (a cui rinvia sua volta l’art. 18, co. 7), quali: il numero di dipendenti occupati dall’impresa, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.]
Come rilevato dalla giurisprudenza consolidata (v. ad es. Cass. 16 gennaio 2013, n. 880, GI, 2013, 2072, con nota di G. PACCHIANA PARRAVICINI, Vizi della procedura ed accordo sindacale nella disciplina dei licenziamenti collettivi), la comunicazione preventiva con cui il datore di lavoro dà inizio alla procedura di licenziamento deve adempiere compiutamente l’obbligo di fornire le informazioni specificate dalla legge in modo da consentire all’interlocutore sindacale di esercitare “in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero”. Ciò, anche tramite un esame congiunto volto a verificare la effettività e la inevitabilità, totale o parziale, del programmato ridimensionamento dell’organico.
In altre parole, vi è necessità di controllare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutinare e, in secondo luogo, nel caso in cui i dipendenti siano in numero superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa (Cass. 16 febbraio 2010, n. 3603, RGL, 2011, II, 189, con nota di A. LEPORE, Mobilità dei lavoratori e comunicazione dei criteri di scelta: “istruzioni per l’uso”), di modo che se il datore di lavoro comunica il criterio di selezione adottato, indicando le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta, il prestatore può contestare che la scelta è stata attuata con puntuale applicazione di tale criterio (Cass. 19 settembre 2016, 18306 e Cass. 12 giugno 2012, n. 10424, NGL, 2012, 512).
Il datore di lavoro deve perciò “spiegare in modo chiaro ed esaustivo come ha declinato in concreto il criterio – di per sé generalissimo – delle esigenze tecnico-produttive e come ha concretamente valorizzato il medesimo, l’anzianità ed i carichi di famiglia, illustrando dettagliatamente il peso attribuito a ciascuno di essi nella comparazione dei lavoratori” (Trib. Torino, 12 agosto 2017, n. 15768, annotata in questo sito da P. PIZZUTI, Criteri alla base del licenziamento collettivo e trasferimento d’azienda).
Con la comunicazione di un criterio vago, non raffrontabile con alcun criterio oggettivamente predeterminato, il lavoratore è infatti privato della tutela assicuratagli dalla legge, con assoluta discrezionalità del datore di lavoro nell’individuazione dei lavoratori da licenziare (Cass. 23 dicembre 2009, n. 27165); e l’incompletezza della comunicazione integra una violazione della procedura dando luogo, per i vecchi assunti, alla tutela indennitaria ex art. 18, co. 7, terzo periodo, Stat. Lav., a cui rinvia il co. 5 della medesima norma (ossia, risoluzione del rapporto di lavoro e pagamento in favore del lavoratore di una “indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti”) (Cass. 29 settembre 2016, n. 19320, cit. e Cass. 13 giugno 2016, n. 12095); per i nuovi assunti, invece, alla “nuova” tutela indennitaria contemplata dall’art. 3, co.1, D.LGS. n. 23/2015 a cui rinvia l’art. 10 del medesimo decreto (cioè, risoluzione del rapporto di lavoro e pagamento in favore del lavoratore di una “indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”).
In sintesi, dunque, per la violazione delle procedure è prevista solo una tutela indennitaria che non travolge l’efficacia dei licenziamenti.