Secondo la Cassazione l’atto negoziale del lavoratore inteso a sciogliere il vincolo lavorativo nel contratto a tempo determinato gli preclude la successiva azione giudiziale per chiedere la nullità dell’apposizione del termine.
Nota a Cass. 14 marzo 2019, n. 7318
Gennaro Ilias Vigliotti
La dichiarazione di recesso del lavoratore dal contratto di lavoro, una volta comunicata al datore, è idonea ex se a produrre l’effetto dell’estinzione del rapporto, a prescindere dai motivi che hanno determinato le dimissioni. Quest’ultime, infatti, costituiscono un atto unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del vincolo di lavoro dipendente nel momento in cui pervengono a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo. Tale effetto può essere escluso solo quando le dimissioni, in quanto atto di volontà, siano viziate da dolo, violenza o errore, con onere in capo al lavoratore, ai sensi dell’art. 1427 c. c., di far valere tali vizi.
I principi in analisi sono stati ribaditi di recente dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 7318 del 14 marzo 2019, nella quale i giudici di legittimità hanno dovuto valutare l’incidenza delle dimissioni del lavoratore sul suo diritto a chiedere l’accertamento della nullità del contratto a termine da lui risolto e la conversione dello stesso in contratto a tempo indeterminato.
La Corte d’Appello di Roma, infatti, aveva accolto le istanze del lavoratore, ritenendo che, qualora il dipendente rassegni le proprie dimissioni nel corso di una serie di contratti a termine e successivamente agisca in giudizio al fine di ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto a ciascuno dei contratti e la conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro, non si può ritenere che le dimissioni impediscano la conversione, essendo necessario accertare se la volontà di recedere da un rapporto di lavoro a tempo determinato sussistesse anche in relazione ad un rapporto di lavoro stabile.
Avverso tale decisione aveva proposto ricorso in Cassazione la società soccombente, rilevando che il dipendente aveva per due volte rassegnato le proprie dimissioni dai rispettivi contratti a termine e che tale manifestazione di volontà, non affetta da vizi di invalidità e comunque mai impugnata, non poteva non ritenersi idonea a determinare l’estinzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato eventualmente destinato ad essere ricostruito ex post per effetto della conversione ex tunc dei rapporti di lavoro instaurati con un termine finale.
La Corte Suprema, richiamando l’indirizzo consolidatosi sul tema negli ultimi anni, ha accolto il ricorso presentato dall’azienda ed ha affermato che le dimissioni del lavoratore da un contratto a tempo determinato, facente parte di una sequenza di contratti similari succedutisi nel corso degli anni, esplicano i propri effetti anche con riferimento al rapporto a tempo indeterminato accertato dal giudice con sentenza dichiarativa della nullità del primo dei contratti di lavoro a termine. Ciò, salvo che il lavoratore non dimostri che le dimissioni sono viziate da errore, sotto forma di ignoranza della sopravvenuta conversione del rapporto, sicché da esse derivano effetti non limitati alla sola anticipazione della data di scadenza del rapporto a tempo determinato cui esse si riferiscono, ma anche incidenti sulla continuità del rapporto a tempo indeterminato, la cui esistenza sia accertata successivamente dal giudice.
Il lavoratore a termine, dunque, se si dimette non può chiedere la costituzione giudiziale di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, a meno che non provi che l’atto di recesso era originariamente viziato nella volontà.