La conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato opera sin dall’origine del rapporto di lavoro (ossia ex tunc).
Nota a Cass. 26 marzo 2019, n. 8385
Maria Novella Bettini
La sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine e ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto, cui è connesso l’obbligo del datore di riammettere in servizio il lavoratore (e di corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione in servizio), è di natura dichiarativa e non costitutiva.
“La conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato opera, pertanto, con effetto ex tunc dalla illegittima stipulazione del contratto a termine, mentre l’indennità di cui all’art. 32, comma 5, I. 183 del 2010 ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.
L’importante principio è affermato dalla Corte di Cassazione (26 marzo 2019, n. 8385, che cassa la sentenza di merito), la quale precisa che l’accertamento giudiziale è di natura dichiarativa anche alla luce dell’intervento legislativo di interpretazione autentica della Corte costituzionale nel 2014 (sent. 226/2014), che conferma la propria precedente lettura interpretativa contenuta nella sentenza n. 303/ 2011. La Cassazione con tale decisione:
a) per un verso (per esigenze di certezza e di omogeneità delle situazioni debitorie derivanti dalla conversione del rapporto di lavoro instaurato con termine illegittimo), forfettizza il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine (danno che copre solo il periodo intermedio che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto di lavoro);
b) e, per l’altro, assicura al lavoratore illegittimamente assunto a termine l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nel senso che il datore di lavoro è “indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva”, altrimenti risultando “completamente svuotata la tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato”.
Il rimedio risarcitorio, dunque, costituisce una sanzione che non si sostituisce, ma si aggiunge, alla ricostituzione del rapporto derivante dalla conversione, dichiarata con sentenza di accertamento.
Ciò, in un’ottica di equilibrato componimento dei contrapposti interessi, poiché si assicura al datore di lavoro la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il lasso temporale che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata del rapporto medesimo (la valenza sanzionatoria della normativa, quindi, riguarda soltanto il periodo compreso tra la scadenza del termine e l’accertamento giudiziale della sua nullità); e, al tempo stesso, si garantisce al lavoratore la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, insieme ad un’indennità (che gli è dovuta sempre e comunque), “senza necessità né dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta”. In sintesi, dalla data della sentenza, il lavoratore ha diritto alla riammissione in servizio e alla ricostituzione della effettiva funzionalità del rapporto illegittimamente interrotto.
La Cassazione esclude che l’intervento del legislatore del 2012 (L. n. 92) abbia voluto dare una diversa interpretazione dalla decisione della Corte Costituzionale (n. 303/2011). Come noto, infatti, la materia, inizialmente disciplinata dalla L. n. 183/2010, art. 32, co. 5, che è stata poi interpretata, a norma dell’art. 1, co. 13, L. 28 giugno 2012, n. 92, nel senso che “l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”. In seguito, il citato co. 13 dell’art. 1 è stato abrogato dall’art. 55, co. 1, lett. f), D.LGS. 15 giugno 2015, n. 81, il quale, all’art. 28, co. 2, dispone: “Nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 604/1966. La predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subìto dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.