In caso di mancato rispetto delle procedure previste per le riduzioni di personale dalla L. n. 223/1991, il licenziamento del lavoratore assunto dopo il 7 marzo è illegittimo ed egli ha diritto ad una indennità stabilita secondo i criteri fissati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 194/2018.

 Nota a Trib. Napoli 26 febbraio 2019, n. 1366

Fabio Iacobone

Le imprese che occupino più di 15 dipendenti e che in seguito ad una riduzione o trasformazione di attività per cessazione di appalto “intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia” (art. 24, co.1, L. n. 223/1991) sono tenute ad applicare le disposizioni di cui all’art. 4, co. da 2 a 12 e 15-bis, e all’art. 5, co. da 1 a 5 (L. cit.).

In base al combinato disposto di queste disposizioni, l’impresa è tenuta a dare alle rappresentanze sindacali aziendali di cui all’art. 19 Stat. Lav., nonché alle rispettive associazioni di categoria, o, in mancanza, alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, una comunicazione preventiva scritta (inviata in copia all’Ufficio del lavoro) contenente, fra l’altro, motivi dell’eccedenza, numero e profili professionali del personale in esubero e tempi di attuazione della riduzione. Successivamente occorre procedere all’esame congiunto con i sindacati delle cause dell’eccedenza e della possibilità di utilizzare diversamente il personale. E, al termine di questa procedura (sia in caso di raggiungimento dell’accordo sindacale che in caso di mancata intesa) le parti sono convocate per un ulteriore esame e formulazioni di proposte presso l’Ufficio del lavoro.

Solo dopo questa procedura l’impresa ha facoltà di licenziare, comunicando, entro 7 giorni, il recesso a ciascun lavoratore in esubero. L’art. 5, L. n. 223/1991, cit., stabilisce poi quali criteri di scelta dei lavoratori da licenziare si devono adottare in assenza di prescrizioni diverse contenute nell’eventuale accordo sindacale.

È quanto affermato dal Trib. Napoli 26 febbraio 2019, n. 1366 in una vicenda sottoposta al regime delle c.d. tutele crescenti di cui al D.LGS. n. 23/2015, il cui art. 10, co.1, dispone che  in caso di licenziamento collettivo ai sensi degli artt. 4 e 24 L. n. 223/1991, intimato senza l’osservanza delle procedure richiamate all’art. 4, co. 12, o dei criteri di scelta di cui all’art. 5, co. 1, L.  n. 223 cit., si applica il regime di cui all’art.3, co.1.

Questa disposizione prevede che, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, “il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.

Al riguardo, la Corte Costituzionale (sentenza n. 194/2018), cui ha fatto seguito la riforma del D.LGS. n. 23/2015 ad opera del DL. n. 87/2019, conv. in L. n. 96/2019 (inapplicabile ratione temporis al caso in esame), ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, co.1, D.LGS. n. 23/2015 relativamente alla previsione di un importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, affidando al giudice la determinazione discrezionale dell’importo stesso nei limiti minimi e massimi della legge. Sicché, come rileva il Tribunale, il giudice dovrà tener conto, accanto all’anzianità di servizio, degli altri criteri “desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamenti e condizioni delle parti)”.

In questo quadro, la Corte territoriale, tenendo conto del comportamento datoriale e della breve durata (3 mesi) del rapporto di lavoro dei lavoratori licenziati, ha accertato la illegittimità del recesso e condannato l’azienda al pagamento di un’indennità (non assoggettata a contributo previdenziale) di 4 mensilità. Su tale somma, precisano i giudici, sono dovuti gli interessi legali e la rivalutazione monetaria dalla data di maturazione del credito (data del licenziamento) fino all’effettivo soddisfo.

Licenziamento collettivo e omissione delle procedure di legge
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