Nota a Cass. 27 marzo 2019, n. 8580
Alfonso Tagliamonte
In seguito all’emanazione della L. n. 145 del 2018 (c.d. finanziaria 2019), che riforma gli artt. 10 e 11, D.P.R. n. 1124/1965, il danno differenziale dovuto in caso di infortunio attribuibile alla responsabilità del datore di lavoro è rappresentato da ciò che eccede tutte le indennità erogate dall’INAIL e non è più dal risultato di una sottrazione distinta per componenti (patrimoniale e biologico) dal danno subito.
L’importante principio è sancito dalla Corte di Cassazione (27 marzo 2019, n. 8580), la quale ha anche affermato l’irretroattività delle modifiche introdotte dalla legge finanziaria n. 145/2018, precisando che le stesse decorrono dall’ 1.1.2019 e, quindi, “le modifiche dell’art. 10 del D.P.R. n. 1124 del 1965, introdotte dall’art. 1, comma 1126, della L. n. 145 del 2018, non possono trovare applicazione in riferimento agli infortuni sul lavoro verificatisi e alle malattie professionali denunciate prima dell’1.1.2019, data di entrata in vigore della citata legge finanziaria”. In sostanza, quindi, la nuova misura non è applicabile agli infortuni o malattie professionali verificatesi prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina e quindi, ai giudizi in corso
Come noto, con la modifica dei criteri di calcolo del danno differenziale rendendo indistinte le singole poste (di danno biologico e patrimoniale), il legislatore ha ridefinito il danno differenziale che oggi si ottiene sottraendo dal risarcimento “complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo”, la “indennità che, a qualsiasi titolo ed indistintamente… è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto”. L’obbligo risarcitorio del datore di lavoro comprende pertanto unicamente la parte che eccede tutte le indennità liquidate dall’INAIL, ai sensi dell’art. 66, D.P.R. cit. e del D.LGS. n. 38/2000, art. 13.
Conseguentemente, è indifferente la natura (biologica o patrimoniale) delle voci del risarcimento del danno civilistico e dell’indennità INAIL da cui operare la detrazione ai fini del calcolo del danno differenziale e, al tempo stesso, risulta modificata la somma che l’Istituto può pretendere in via di regresso nei confronti del responsabile civile.
La Cassazione, attingendo a principi costituzionali e a regole comunitarie e di convenzioni internazionali, ha anche precisato che è configurabile e trasmissibile iure hereditatis il danno non patrimoniale nelle due componenti:
a) di danno biologico “terminale”, “cioè di danno biologico da invalidità temporanea assoluta, configurabile in capo alla vittima nell’ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall’evento lesivo” (v. Cass. n. 26727/2018 e n. 21060/2016);
b) e di “danno morale terminale o catastrofale o catastrofico”, “consistente nella sofferenza patita dalla vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita, quando vi sia la prova della sussistenza di un suo stato di coscienza nell’intervallo tra l’evento lesivo e la morte, con conseguente acquisizione di una pretesa risarcitoria trasmissibile agli eredi” (v. Cass. n. 13537/2014 e n. 7126/2013; è esclusa, invece, la risarcibilità iure hereditatis di un danno da perdita della vita, a causa dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio – Cass., S.U. n. 15350/2015).
Sulla liquidazione dei danni agli eredi in un caso di decesso del lavoratore, ascrivibile alla responsabilità del datore di lavoro, v. anche Cass. 25 marzo 2019, n. 8292 (relativa alla responsabilità datoriale per eventi lesivi conseguenti all’esposizione all’amianto), secondo cui, in caso di decesso derivante da illecito, non esiste un danno da perdita della vita, come danno biologico permanente trasmissibile agli eredi al 100%, ma un danno biologico da invalidità temporanea assoluta, se la morte sopravvenga dopo un apprezzabile lasso di tempo dall’evento lesivo e un danno morale terminale se in tale intervallo la vittima sia stata cosciente dello spegnersi della propria vita. Entrambi i danni sono trasmissibili agli eredi. Inoltre, il primo va liquidato in base alle tabelle elaborate in tema d’invalidità temporanea; mentre il secondo va liquidato secondo un criterio equitativo puro, liberamente correlato alle circostanze del caso concreto e che tenga conto dell’enormità del pregiudizio.
Per quanto concerne i criteri di liquidazione, la Corte specifica che:
1) per la componente di danno biologico, la liquidazione può ben essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea. In particolare, il danno biologico terminale, trasmissibile agli eredi, va calcolato “avendo riguardo alla condizione di invalidità temporanea sofferta nel periodo dalla diagnosi (o dall’evento lesivo) al decesso, con conseguente liquidazione secondo i criteri tabellari riferiti all’invalidità temporanea”;
2) mentre, per la seconda componente, avente natura peculiare, la liquidazione va affidata ad un “criterio equitativo puro – ancorché sempre puntualmente correlato alle circostanze del caso concreto – che sappia tener conto della enormità del pregiudizio, atteso che la lesione è così elevata da non essere suscettibile di recupero e da esitare nella morte” (v. Cass. n. 18163/2007 e n. 1877/2006). Con riguardo ai parametri di valutazione equitativa, i giudici richiamano l’orientamento giurisprudenziale (ord. n. 913/2018 e n. 9950/2017) che ha escluso la violazione di tali parametri (ex art. 1226 c.c.) nel caso di liquidazione del danno non patrimoniale operata con riferimento a tabelle diverse da quelle elaborate dal Tribunale di Milano, “qualora al danneggiato sia riconosciuto un importo corrispondente a quello risultante da queste ultime, restando irrilevante la mancanza di una loro diretta e formale applicazione”.
Infatti, l’esigenza di garantire una uniformità di trattamento nella liquidazione del danno non patrimoniale, secondo la sentenza in esame, da una parte, può ritenersi certamente garantita dal riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, (v. Cass. n. 20895/2015 e n. 4447/2014), che rappresenta un parametro valutativo conforme agli artt. 1226 e 2056 c.c.; e, dall’altra, non può ritenersi automaticamente pregiudicata dall’utilizzo di differenti criteri tabellari, come (nel caso di specie) le Tabelle del Tribunale di Roma, quando il giudice ritenga che vi siano ragioni valutative idonee a giustificare l’abbandono delle tabelle milanesi e “reputi congruo l’importo risarcitorio, anche in confronto al risultato ottenibile mediante applicazione di queste ultime”.