Il periodo di comporto determinato in mesi va computato, salvo diversa volontà delle parti, secondo il calendario comune in base all’effettiva consistenza dei mesi stessi.
Nota a Cass. 8 aprile 2019, n. 9751
Flavia Durval
La malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), è soggetta alle regole dettate dall’art. 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali (v. Cass. n. 1568/2013).
Ne consegue che il datore di lavoro, da un lato, non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (c.d. “periodo di comporto”), il quale è determinato per legge dalla disciplina collettiva (o dal contratto individuale, se più favorevole) o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, dal giudice in via equitativa, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo di licenziamento né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.
Il licenziamento per malattia del lavoratore è pertanto sottratto alla disciplina generale dell’art. 3, L. n. 604/1966 ed è assoggettato esclusivamente alla disciplina speciale dell’art. 2110 c.c. (v. Cass. S.U. n. 2072/1980).
Durante il periodo di comporto, il lavoratore non può essere licenziato se non per giusta causa (v. Cass. nn. 19089/2017 e n. 64/2017) e, una volta concluso tale periodo, il datore di lavoro ha diritto di recedere dal rapporto di lavoro, dando il regolare preavviso. Il superamento del comporto integra, pertanto, di per sé un autonomo giustificato motivo oggettivo di licenziamento, che non necessita di ulteriore giustificazione (v. Cass. n. 1634/2018, in questo sito, con nota di F. DURVAL, Licenziamento per il superamento del periodo di comporto).
Il periodo di comporto (la cui durata è normalmente differenziata in base all’anzianità di servizio e al livello di inquadramento del lavoratore) si distingue in: 1) comporto secco (il periodo di conservazione del posto è stabilito con riferimento ad un unico e ininterrotto evento morboso di lunga durata, cioè tale da coprire con continuità e ininterrottamente un considerevole arco di tempo. In altri termini, il periodo massimo di conservazione del posto riguarda un’unica malattia. Sicché, con un comporto, ad es. di 3 mesi, il lavoratore potrebbe assentarsi 2 mesi e 29 gg., poi lavorare un paio di gg. e poi far ripartire i 3 mesi di comporto. Ciò, in quanto i vari periodi di malattia intervallati da qualche giorno di lavoro non si cumulano); 2) o per sommatoria (periodo massimo di conservazione del posto in presenza di più di più eventi morbosi intervallati da presenze sul posto di lavoro. In tal caso i vari periodi si cumulano. Ad es. se il comporto è di 3 mesi, il lavoratore che si assenti 3 mesi e 29 gg., poi lavora 2 gg. e poi si riassenta, al secondo giorno di assenza ha superato i 3 mesi).
Quanto ai criteri di calcolo, nella determinazione del periodo di comporto (secco o per sommatoria), si computano i giorni di malattia, secondo il calendario comune, ivi compresi i giorni non lavorativi (sabato, domenica e festività infrasettimanali): cfr. Cass. n. 5749/2019; Cass. n. 24027/2016 e Cass. n. 20106/2014, per la quale nel calcolo del periodo di comporto vanno considerati anche i giorni festivi, se in quelli antecedenti o successivi il lavoratore è rimasto in malattia, in quanto si presume che la situazione clinica sia rimasta inalterata).
In particolare, Cass. 8 aprile 2019, n. 9751, afferma che il periodo di comporto va computato, salvo diversa volontà delle parti sociali, secondo il calendario comune in base all’effettiva consistenza dei mesi stessi (per il principio desumibile dall’art. 2963, co. 4, c.c. e dall’art. 155, co. 2, c.c. (v. Cass. n. 13658/2015 e Cass. n. 6554/2004). In altri termini, sia il termine interno, corrispondente alla somma delle assenze causate dai singoli episodi morbosi, che quello esterno, costituito dall’arco temporale entro il quale i singoli episodi morbosi devono rientrare, vanno fissati “secondo la effettiva consistenza che i mesi hanno in base al calendario comune e non già assumendone una durata convenzionale fissa costituita da un predeterminato numero di giorni”. Il legislatore ha infatti ripudiato “un criterio che si discosta notevolmente dalla durata effettiva dell’anno posto che, con il diverso computo (vale a dire considerando il mese pari sempre a trenta giorni), questo assommerebbe a trecentosessanta giorni e non a trecentosessantacinque come è secondo calendario”.
In caso, poi, di licenziamento di un lavoratore per superamento del periodo di comporto, nel computo dello stesso non devono rientrare i periodi di aspettativa non retribuita, usufruiti in base ai benefici della Legge n. 104/1992, anche se questi ultimi sono consecutivi ad un periodo di assenza per malattia o aspettativa (v. Cass. n. 3065/2016).