Il carattere ritorsivo del licenziamento può essere provato dal lavoratore sulla base di elementi indiziari da valutare nel loro complesso e in correlazione tra loro.
Nota a Cass. 4 aprile 2019, n. 9468 e ad App. Bologna 30 aprile 2019, n. 406
Sonia Gioia
Per quanto concerne il licenziamento ritorsivo occorre che l’intento datoriale (per l’appunto ritorsivo) “abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816/2005), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento” (Cass. n. 5555/2011).
L’ onere della prova del carattere ritorsivo grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di “elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia, dovendo tale intento aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro” (Cass. n. 18283/2010 e n. 10047/2004).
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione (4 aprile 2019, n. 9468) e dalla Corte d’Appello di Bologna (30 aprile 2019, n. 406), la quale ha precisato che la prova di un licenziamento per rappresaglia può essere data attraverso una serie di elementi indiziari in concatenazione fra loro; ed ha ritenuto ritorsiva la condotta datoriale costituita dalla illegittima reazione alla protratta assenza per malattia (che costituisce un diritto del dipendente) nonché alla richiesta di pagamento delle ore di lavoro straordinario e delle retribuzioni non corrisposte (che, parimenti, costituisce l’esercizio di un diritto del prestatore).
Nello specifico, la Cassazione ha accertato la ricorrenza di una serie di condotte indiziarie che, valutate complessivamente, evidenziavano la natura ritorsiva del licenziamento. E cioè:
- reiterate manifestazioni, da parte del datore di lavoro, di riserve sulla effettiva situazione di salute del dipendente;
- contrarietà rispetto al fatto che il lavoratore fosse in malattia, così da danneggiare l’azienda;
- omessa erogazione dell’indennità di malattia;
- mancata riammissione in servizio al termine della malattia e imposizione di un periodo di ferie, prorogato “di volta in volta e sempre ‘all’ultimo minuto’ tramite sms”, lasciando il prestatore in una situazione di incertezza;
- il fatto che, terminate le ferie, il dipendente “si recava ad offrire la propria attività lavorativa presso la sede aziendale ma non trovava nessuno in azienda né il datore di lavoro gli rispondeva al telefono”, per cui “si vedeva costretto ad offrire per iscritto la propria prestazione lavorativa”, ricevendo solo nei giorni successivi telegramma e lettera di licenziamento;
- ritardi cronici nei pagamenti;
- successione di rilievi pretestuosi;
- presentazione di una querela contro il lavoratore.
Sulla base di tali circostanze indiziarie, la Corte, in applicazione dell’art. 18, co. 1 e 2, L. n. 300/1970, come novellato dalla L. n. 92/2012, ha ordinato la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e condannato la società al risarcimento del danno, commisurato all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal dipendente dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto l’aliunde perceptum, e comunque in misura non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre alla rivalutazione monetaria ed interessi legali sino al saldo effettivo e al versamento, per il medesimo periodo, di contributi previdenziali e assistenziali.