Durante il periodo di sospensione per malattia il lavoratore ha facoltà di richiedere la fruizione delle ferie prima della scadenza del periodo di comporto. In caso di rifiuto, il datore di lavoro deve dimostrare di aver tenuto conto del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del suddetto periodo di comporto.
Nota a Cass. (ord.) 17 aprile 2019, n. 10725
Maria Novella Bettini
Il lavoratore assente per malattia, affinché il datore di lavoro, valutando il fondamentale interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro, possa concedergli di beneficiare del periodo feriale durante la malattia, ha facoltà di presentare domanda per fruire le ferie maturate e non godute allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto (Cass. n. 22753/2014 e n. 3028/2003).
La richiesta, inoltre, deve contenere l’indicazione del momento a decorrere dal quale il prestatore intende ottenere la conversione del titolo dell’assenza, che “deve precedere la scadenza del periodo di comporto, dato che al momento di detta scadenza il datore di lavoro acquisisce il diritto di recedere ai sensi dell’art. 2110 c.c.” (Cass. n. 8834/2017 e n. 6043/2000).
Dal canto suo, il datore di lavoro non è obbligato ad accedere alla domanda qualora ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa. Tuttavia, “in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede”, le dedotte ragioni datoriali devono essere “concrete ed effettive” (Cass. n. 27392/2018, in questo sito, con nota di A. TAGLIAMONTE, Ferie e periodo di comporto).
E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione (17 aprile 2019, n. 10725, in conformità ad App. Milano 13 marzo 2017), in relazione ad una fattispecie in cui vi era stata una tempestiva richiesta di ferie della lavoratrice prima della scadenza del periodo di comporto (non essendo necessaria la presentazione della domanda nella sua imminenza) unitamente al diniego della società datrice “senza offrire alcuna prova delle esigenze aziendali a giustificazione del rifiuto, né tanto meno la loro prevalenza rispetto all’interesse della dipendente alla conservazione del posto…”. Dopodichè, la lavoratrice malata, alcuni mesi dopo aver chiesto e non ottenuto la conversione del titolo di assenza da malattia a ferie, era stata licenziata per superamento del periodo di comporto.
Nello specifico, la Corte rileva che non sarebbe “costituzionalmente corretto” precludere il diritto alle ferie a causa delle condizioni psico-fisiche inidonee al loro pieno godimento nell’impossibilità, peraltro, di procedere alla loro sospensione spostandole al termine della malattia, “a causa della probabile perdita del posto di lavoro conseguente al superamento del comporto”.
Il datore di lavoro (al quale è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie) è poi tenuto a dimostrare “(ove sia stato investito di tale richiesta) di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto” (Cass. 3 marzo 2009, n. 5078/2009).
Ancora, ad avviso del Collegio, i comportamenti datoriali (richieste di chiarimenti continue e pressanti alla lavoratrice sulle sue assenze per malattia e sulle cure mediche, privazione della parte più rilevante delle mansioni al rientro dalla malattia e richiesta di dimissioni rifiutata dalla medesima) costituiscono condotte vessatorie integranti mobbing, riconducibili a responsabilità datoriale a norma dell’art. 2087 c.c. (quali violazioni dell’obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro, v. Cass. n. 18093/2013 e Cass. n. 22858/2008; sul collegamento della responsabilità datoriale alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (Cass. n. 4222/2016; n. 2038/2013 e n. 18927/2012).
Ciò, in linea con i consolidati principi di diritto affermati in sede di legittimità per cui, “ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assuma di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica: sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata” (Cass. n. 12437/2018 e n. 26684/2017).