Le esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale possono costituire l’unico criterio per individuare i lavoratori da licenziare.
Nota a Cass. 23 maggio 2019, n. 14055
Francesco Belmonte
In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva, le esigenze “tecnico-produttive ed organizzative” riferite al complesso aziendale (ex art. 5, co.1, L. 23 luglio 1991, n. 223) possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, sempre che il datore indichi, nella comunicazione preventiva (di cui art. 4, co. 3, L. cit.) alle r.s.a ed alle rispettive associazioni di categoria, “sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti”.
Il principio è ribadito dalla Corte di Cassazione (23 maggio 2019, n. 14055), la quale, in linea con le statuizioni della Corte di Appello di Catania, ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato ad un’impiegata amministrativa, conseguente al suo rifiuto di accettare le modifiche contrattuali risultanti dall’accordo sindacale teso ad evitare i licenziamenti collettivi di nove dipendenti a tempo indeterminato.
In particolare, per effetto della chiusura del punto vendita presso la stazione di Catania, la società datrice aveva avviato una procedura di licenziamento collettivo nei confronti dei suddetti lavoratori impiegati nella provincia catanese. A seguito di mancato accordo aziendale, tale procedura era proseguita innanzi all’ITL di Catania, dove era stato raggiunto un accordo sindacale con il quale le parti, al fine di evitare i licenziamenti, avevano convenuto la trasformazione dei rapporti di lavoro a tempo pieno in part-time (con riduzione annuale del 12,50%), con possibilità di adibire il personale anche a mansioni inferiori, prevedendo, solo con riguardo agli impiegati amministrativi, la possibilità di impiegarli stabilmente in mansioni inferiori, “fermo restando l’inquadramento e la retribuzione in godimento e la possibilità di restituirli alle mansioni spettanti in caso di mutamento del mercato”.
Tuttavia, a fronte di tale accordo, la lavoratrice in questione non aveva accettato le modifiche proposte, legittimando così, a parere dei giudici di merito, la risoluzione del rapporto di lavoro.
Avverso tale decisione, la dipendente proponeva ricorso in Cassazione, deducendo di aver lavorato presso il punto vendita dell’Aeroporto di Catania che non era stato interessato dalla crisi, ma che aveva, in realtà, registrato una espansione del fatturato. Inoltre, la lavoratrice sosteneva che la procedura avrebbe dovuto interessare solo l’unità produttiva in crisi (sita presso la stazione ferroviaria) “e che diversamente sarebbe mancato, e perciò mancava, il necessario nesso di causalità diretta tra la crisi ed il ridimensionamento del personale”.
La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha confermato le statuizioni dei precedenti gradi di giudizio in quanto, l’esigenza organizzativa che aveva determinato la ristrutturazione aziendale, pur scaturita dalla chiusura del punto vendita della stazione di Catania, aveva da subito comportato l’esigenza di ridurre le unità amministrative in servizio nella provincia. Per di più, come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, “tali ragioni erano state esplicitate sin dalla comunicazione ex art. 4 con la quale si era aperta la procedura e che su tali premesse era stato raggiunto poi l’accordo con le organizzazioni sindacali.”
(Circa la legittimità di un criterio unico nell’individuazione dei lavoratori da licenziare, v. M.N. BETTINI (a cura di), Licenziamenti collettivi: criteri di individuazione dei lavoratori interessati, in questo sito e i richiami giurisprudenziali ivi contenuti).