La dichiarazione con cui un lavoratore rinuncia ex art. 1236 c.c. al proprio TFR e ai propri compensi, avendo un’efficacia probatoria limitata alle sole parti del rapporto remissivo, non è sufficiente a dimostrare nei confronti dell’Amministrazione finanziaria il venir meno del presupposto impositivo delle ritenute d’acconto operate su tali somme dal sostituto di imposta. Ne deriva che, ai fini del rimborso delle ritenute d’acconto, spetta al sostituto o, nel caso di cessione del credito litigioso con il Fisco, al cessionario dimostrare attraverso l’allegazione di bilanci e altri documenti contabili il venir meno dell’operazione assoggettabile a ritenuta.

Nota a Cass. (ord.) 21 marzo 2019, n. 8012

Marialuisa De Vita

La costruzione giuridica della remissione del debito come atto unilaterale recettizio con effetti estintivi del debito “riversandosi quanto alle sue conseguenze processuali nell’alveo della efficacia probatoria tra le parti del rapporto, non si riflette, con altrettanta efficacia processuale, nei confronti di un terzo creditore, estraneo al rapporto remissivo e che al contrario trae titolo del suo credito proprio dalla conservazione del rapporto creditorio tra remittente e debitore beneficiato”.

Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza 21 marzo 2019, n. 8012.

Nel caso di specie, una società cedeva ad altra società i propri crediti fiscali litigiosi, tra i quali si inseriva quello relativo ad un’istanza di rimborso con cui la società cedente aveva chiesto all’Agenzia delle Entrate la restituzione delle ritenute di acconto operate sul TFR e sui compensi spettanti ad un proprio dipendente.

A fondamento dell’istanza di rimborso la società cedente e, successivamente alla cessione, anche la società cessionaria allegavano la sola dichiarazione di remissione del debito con cui il lavoratore espressamente rinunciava alla percezione delle somme a lui spettanti. Ad avviso delle società istanti, la dichiarazione di remissione del debito bastava a dimostrare il venir meno del presupposto impositivo che aveva giustificato il versamento delle ritenute d’acconto.

Avverso l’espresso diniego dell’Agenzia delle Entrate, la società cessionaria ricorreva prima alla Commissione tributaria provinciale, che rigettava il ricorso e, poi, alla Commissione tributaria regionale che, a conferma della decisione di primo grado, rigettava a sua volta l’appello per carenza di prova circa l’avvenuta rinuncia del lavoratore alla percezione dei compensi e del TFR e la mancata corresponsione di tali somme da parte della società al lavoratore.

Ad analoghe conclusioni perviene anche la Corte di Cassazione con la sentenza in commento.

In particolare, la società ricorrente impugnava la sentenza di secondo grado lamentando l’erronea attribuzione alla dichiarazione di remissione del debito della natura di “mera dichiarazione priva di pregio giuridico e per questo probatorio” operata dai giudici di merito. Tale dichiarazione, secondo l’impostazione della società ricorrente, dovrebbe invece costituire un negozio abdicativo del diritto, posto in essere a mezzo di un atto unilaterale recettizio, con piena valenza probatoria, in presenza del quale grava in capo all’Agenzia delle entrate l’onere di fornire la prova contraria.

La Corte di Cassazione non concorda con tale ricostruzione.

Al fine di chiarire la natura giuridica dell’istituto di cui all’art. 1236 c.c. i giudici di legittimità ricordano che la remissione del debito costituisce, sì, un atto unilaterale recettizio relativamente al quale la dichiarazione “a parte creditoris” si presume accettata dal debitore e produce i suoi tipici effetti estintivi dal momento in cui la comunicazione perviene a conoscenza della persona alla quale è destinata a meno che questa, conosciuta la volontà remissiva, non dichiari entro un termine congruo di ricusarla e, quindi, di non volerne profittare. Ma proprio per questo si tratta di un negozio la cui efficacia probatoria deve considerarsi limitata alle sole parti del rapporto remissivo. Ne deriva – afferma la Suprema Corte –che nei confronti dell’Amministrazione finanziaria – terzo creditore estraneo al rapporto tra remittente e debitore beneficiato –  “non può essere sufficiente l’atto unilaterale recettizio di rinuncia al credito a costituire prova del venir meno del presupposto impositivo”; è, invece, necessario dimostrare attraverso il deposito dei bilanci sociali, dei libri contabili obbligatori o di altri documenti, che effettivamente non vi è stato alcun trasferimento di ricchezza dalla società al lavoratore e che, quindi, è venuto meno il presupposto che aveva originariamente giustificato il versamento delle ritenute.

Nel caso di specie, non avendo la società cessionaria assolto tale onere probatorio, la Suprema Corte, in applicazione del suesposto principio, rigettava il ricorso e per l’effetto negava alla cessionaria il rimborso delle ritenute d’acconto operate dalla società cedente.

Dichiarazione di rinuncia del lavoratore ai compensi e al TFR: non legittima il rimborso delle ritenute d’acconto versate dal sostituto di imposta
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