Licenziato in tronco il dipendente che abbia svolto abitualmente attività extralavorativa di consulente del lavoro ed attuato una condotta truffaldina nei confronti dell’Inps.
Nota a Cass. 7 maggio 2019, n. 11948
Fabrizio Girolami
Il giudicato penale di assoluzione non determina l’automatica archiviazione del procedimento disciplinare. Sulla base di tale principio, la Corte di Cassazione con sentenza 7 maggio 2019, n. 11948, ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Bari che aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare (senza preavviso) intimato dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli nei confronti di un dipendente resosi responsabile dello svolgimento di condotte illecite (non autorizzate), ritenute di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.
Nel caso di specie, l’Agenzia fiscale nel 2014 aveva avviato dei procedimenti disciplinari nei confronti del dipendente, contestandogli, quale primo addebito, l’avere svolto, negli anni 2000-2003, in maniera abituale, attività extralavorativa di consulenza del lavoro per altre aziende, mai autorizzata dall’Agenzia. Allo stesso dipendente, l’Agenzia aveva inoltre contestato, quale secondo addebito, di aver posto in essere una condotta truffaldina nei confronti dell’INPS, per essersi il dipendente medesimo prodigato per far ottenere a numerosi braccianti agricoli della Puglia trattamenti assistenziali e previdenziali non dovuti. In relazione a quest’ultimo fatto illecito, l’Agenzia aveva inoltrato apposita denuncia penale, in conformità a quanto disposto dall’art. 68 (“Rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale”) del c.c.n.l. 28 maggio 2004 relativo al personale del comparto delle Agenzie fiscali.
I procedimenti disciplinari, avviati nel 2004 e poi riuniti, erano rimasti sospesi fino alla sentenza definitiva e successivamente riattivati dall’Agenzia a seguito del passaggio in giudicato, nel mese di luglio 2011, della sentenza del giudice penale che aveva prosciolto l’imputato, con dichiarazione di “non luogo a procedere”, per intervenuta prescrizione dei reati ascritti, concludendosi, in data 25 maggio 2012, con l’intimazione del licenziamento disciplinare senza preavviso a carico del dipendente.
Perso il primo grado di impugnazione del licenziamento dinanzi al Tribunale di Bari, il dipendente aveva proposto reclamo alla Corte d’Appello di Bari, al fine di ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato dall’Agenzia fiscale e la conseguente condanna della stessa alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato nonché al risarcimento del danno (in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data dell’illegittimo recesso). Anche il giudice di secondo grado aveva rigettato il reclamo del dipendente, confermando il licenziamento. Avverso tale sentenza, il dipendente aveva proposto, quale rimedio di ultima istanza, ricorso per cassazione, al quale l’Agenzia delle dogane e dei monopoli aveva resistito con controricorso.
Il dipendente, tra i motivi di doglianza proposti, sosteneva che il giudice di merito aveva compiuto una “erronea valutazione” in punto di diritto, in quanto, a suo modo di vedere, soltanto la pronuncia di una sentenza penale di condanna avrebbe potuto legittimare la sanzione disciplinare del licenziamento, mentre il processo si era concluso con una sentenza di “assoluzione per prescrizione”.
La Cassazione ha rigettato tale motivo di ricorso, operando una preliminare attività di interpretazione ermeneutica delle disposizioni previste dal c.c.n.l. per il personale delle Agenzie fiscali (28 maggio 2004) contenute nel Capo VIII (“Norme disciplinari”). In particolare, l’art. 67 (“Codice disciplinare”) di tale c.c.n.l. prevede, al co. 6, che la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso si applica in caso di … b) “condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità”;… d) “commissione in genere – anche nei confronti di terzi – di fatti o atti, anche dolosi, che, pur costituendo o meno illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro”; e) “condanna passata in giudicato: [1.] per i delitti indicati nell’art. 15, commi 1 e 4-septies, lettere a), b) limitatamente all’art. 316 del codice penale, c), ed e) della legge n. 55 del 1990 e successive modificazioni e integrazioni; [2.] quando alla condanna consegua comunque l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; 3. per i delitti previsti dall’art. 3, comma 1 della legge n. 97 del 2001”.
La Corte ritiene che soltanto per le fattispecie tipizzate nelle lett. b) ed e) dell’art. 67 del c.c.n.l. il recesso “è ricollegato al passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna”, mentre nell’ipotesi di cui alla lett. d) rileva la gravità della condotta e l’irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva è consentita, a prescindere dalla rilevanza penale dell’azione, in relazione a “fatti o atti anche dolosi che, pur costituendo o meno illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto”.
Secondo la Cassazione, la condotta posta in essere dal dipendente dell’Agenzia ben può essere sussunta nell’alveo della disposizione di cui all’art. 67, co. 6, lett. d) del c.c.n.l., trattandosi di “condotta astrattamente idonea ad integrare un delitto quando, per il sopravvenire di una causa estintiva del reato, non sia stato possibile accertare con efficacia di giudicato la responsabilità penale”, richiamando, in proposito, l’analogo principio di diritto precedentemente enucleato da Cass. 28 agosto 2018, n. 21260, secondo cui “in tema di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, l’art. 67, comma 6, lett. d), del c.c.n.l. Ministeri si interpreta nel senso che è legittima l’irrogazione del licenziamento senza preavviso per la commissione di atti o fatti, dolosi o meno, anche nei confronti di terzi, che siano connotati da una gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro, pur non costituendo, tali atti o fatti, illeciti di rilevanza penale”.
La Corte rileva inoltre che il giudice di merito ha applicato correttamente i principi dell’ordinamento in materia di rapporti tra procedimento disciplinare e processo penale, affermando che l’amministrazione datrice di lavoro è libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente (principio già affermato dalla richiamata sentenza della Cassazione n. 8410/2018, e precedentemente ribadito dalle sentenze n. 5284/2017, 19183/2016 e 758/2006). Risulta, quindi, palesemente erronea l’affermazione del ricorrente che il giudice di merito avrebbe dovuto, nel giudizio civile, attribuire efficacia di giudicato alla sentenza penale di proscioglimento per intervenuta prescrizione, escludendo ogni rilevanza disciplinare sia allo svolgimento dell’attività di consulente del lavoro non autorizzata, sia alla condotta truffaldina, preordinata a far ottenere ai propri assistiti erogazioni di trattamenti assistenziali e previdenziali non dovuti.
Secondo la Cassazione, il giudicato penale non preclude, in sede disciplinare, “una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione – operato nel giudizio penale” (così, Cass. S.U. 9 luglio 2015, n. 14344, in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati). Il giudicato di assoluzione e, a maggior ragione, la sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato non determinano l’automatica archiviazione del procedimento disciplinare perché, fermo restando che il fatto non può essere ricostruito in termini difformi, non si può escludere che lo stesso, inidoneo a fondare una responsabilità penale, possa comunque integrare un inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare.
Alla luce di tale articolato iter argomentativo, la Cassazione ha definitivamente rigettato il ricorso, confermando la legittimità del licenziamento irrogato dall’Agenzia fiscale, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.