L’intento persecutorio che qualifica il mobbing va provato dal lavoratore.
Nota a Cass. 6 maggio 2019, n. 11777
Giuseppe Catanzaro
La responsabilità del datore di lavoro di cui all’art. 2087 c.c. (tutela delle condizioni di lavoro) è di natura contrattuale e non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva poiché la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Pertanto, il mero fatto di lesioni riportate dal dipendente in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa non determina di per se’ l’addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro; occorre, invece, la prova, tra l’altro, della nocività dell’ambiente di lavoro, e (nel caso di dequalificazione mobbizzante) dell’inadempimento rilevante ex art. 2103 c.c., oltre che il nesso tra l’uno e l’altro elemento (v. fra tante, Cass. n. 2038/2013).
Grava poi sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di avere adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.
Lo afferma la Corte di Cassazione (ord. 6 maggio 2019, n. 11777, confermando App. Ancona 2 luglio 2013, n. 219 che aveva precisato che “non possono ricadere nella fattispecie di mobbing i normali conflitti in ambiente di lavoro, tali da restare confinati nella fisiologica prassi quotidiana della generalità dei luoghi di lavoro, fermo restando che la reciprocità degli attacchi e la reazione del dipendente colpito da un atto arbitrario o illegittimo del datore di lavoro caratterizza soltanto il conflitto lavorativo, inidoneo come tale a cagionare danno ingiusto alla salute”.
La Cassazione, in linea con l’orientamento giurisprudenziale consolidato, ritiene che per “mobbing” si intende comunemente una condotta persecutoria e reiterata del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro. Tale condotta assume la forma di “prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità”.
Nello specifico, ai fini della configurabilità’ di un comportamento mobbizzante da parte del datore di lavoro, rilevano:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti (se considerati singolarmente), ovverosia di sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio ed accompagnati dalla coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni (Cass. 14485/2017 e n. 9380/2017);
b) la lesione della salute o della personalità del prestatore;
c) il nesso eziologico tra condotta del datore o di un suo preposto e pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (Cass. n. 898/2014, n. 18836/2013 e n. 3785/2009).