La P.A. risponde civilmente, al pari del datore di lavoro privato, dei danni causati dal fatto illecito del dipendente, a norma dell’art. 2049 c.c.
Nota a Cass. SU. 16 maggio 2019 n. 13246
Maria Novella Bettini e Gennaro Ilias Vigliotti
“Lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo”.
Questo, il principio di diritto posto dalle SU della Cassazione (16 maggio 2019 n. 13246) la quale ricostruisce puntualmente lo stato dell’arte sul punto.
Fino alla sentenza in esame, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (v. Cass. n. 24744/2006 e Cass. n. 9260/1997) ha ritenuto che il fondamento della responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente risiedesse nel rapporto di immedesimazione organica. Pertanto, per configurare tale responsabilità, doveva sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità all’Amministrazione del comportamento stesso.
Detta riferibilità “presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto”; e viene meno, invece, “quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico, che si riveli del tutto estraneo all’amministrazione o perfino contrario ai fini che essa persegue ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A”. (v. Cass. n. 8306/2011; e Cass. n. 20986/2007).
In questo senso, Cass. pen. Sez. 6, n. 13799/2015, ha affermato che: “”è configurabile la responsabilità civile della P.A. anche per le condotte dei dipendenti pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali mediante la realizzazione di un reato doloso, quando le stesse sono poste in essere sfruttando, come premessa necessaria, l’occasione offerta dall’adempimento di funzioni pubbliche, e costituiscono, inoltre, non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio di tali funzioni, in applicazione di quanto previsto dall’art. 2049 c.c.”.
Secondo questa impostazione, dunque, il fondamento della responsabilità dello Stato e degli enti pubblici (ex art. 28 Cost.) si basa sul rapporto di immedesimazione organica, per cui l’attività dannosa posta in essere dal funzionario (o dipendente), qualora costituisca esplicazione dell’attività dello Stato o dell’ente pubblico (in quanto persegua, sia pur con abuso di potere, fini istituzionali, nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto), è sempre imputabile all’ente di appartenenza, con conseguente responsabilità diretta o per fatto proprio (v. Cass. n. 2089/2008 e Cass. n. 10803/2000). Di qui, l’esclusione di quella responsabilità nelle ipotesi in cui il comportamento persegua “un fine esclusivamente privato od egoistico, o a maggior ragione contrario ai fini istituzionali dell’ente” (v. Cass. n. 8306/2011 e Cass. n. 20986/2007).
Netta è anche quella giurisprudenza amministrativa che ritiene interrotta l’imputazione giuridica dell’attività posta in essere da un organo della pubblica amministrazione nelle ipotesi in cui siano posti in essere fatti di reato (Cons. Stato, Sez. 6, n. 5600/2014), o di “atti adottati in ambienti collusivi penalmente rilevanti” (Cons. Stato, Sez. 5, n. 890/2008 e TAR Reggio Calabria, Sez. 1, n. 536/2012), o comunque quando “il soggetto agente, legato alla P.A. da un rapporto di immedesimazione organica, abbia posto in essere il provvedimento amministrativo, frutto del reato contro la P.A., nell’ambito di un disegno criminoso e quindi perseguendo un interesse personale del tutto avulso dalle finalità istituzionali dell’Ente” (TAR Sicilia-Catania n. 2166/2013).
Più recentemente, tuttavia, la giurisprudenza penale di legittimità ha iniziato a configurare una responsabilità civile della PA anche per le condotte dei pubblici dipendenti finalizzate a scopi esclusivamente personali ed attuate, attraverso la realizzazione di un reato doloso, “sfruttando l’occasione necessaria offerta dall’adempimento delle funzioni pubbliche cui essi sono preposti, nonché integranti il non imprevedibile od eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni, in applicazione del criterio previsto dall’art. 2049 c.c.” (Cass. pen., n. 13799 /2015, cit. e Cass. pen. n. 33562/2003).
A tale orientamento si sono conformati i giudici civili di legittimità (nell’ambito meramente privatistici, dei funzionari di banche o dei promotori di queste o di società di intermediazione finanziaria), riconoscendo la responsabilità dei preponenti quando sussista “un nesso di occasionalità necessaria tra le incombenze attribuite al preposto e il danno arrecato a terzi: nesso che è presupposto indispensabile della responsabilità del preponente ex art. 2049 c.c., e non viene meno in caso di commissione da parte del preposto di un illecito penale per finalità di carattere esclusivamente personale” (v. già Cass. n. 22956/2015; Cass. n. 5020/2014 e Cass. n. 6829/2011).
Il fulcro del ragionamento di questa impostazione si rinviene (accanto al rapporto di preposizione ed all’illiceità del fatto del preposto) nel nesso di occasionalità necessaria tra esercizio delle incombenze e danno al terzo: nesso che è ritenuto sussistente “non solamente se il fatto dannoso derivi dall’esercizio delle incombenze, ma pure nell’ipotesi in cui tale esercizio si limiti ad esporre il terzo all’ingerenza dannosa del preposto ed anche se questi abbia abusato della sua posizione od agito per finalità diverse da quelle per le quali le incombenze gli erano state affidate”.
Tale nesso (e la relativa responsabilità del preponente) si configura quando “le funzioni esercitate abbiano determinato, agevolato o reso possibile la realizzazione del fatto lesivo”. In questa circostanza non rileva se il dipendente abbia superato o meno i limiti delle mansioni affidategli, ovvero abbia agito con dolo e per scopi strettamente personali (v. Cass. n. 18860/2015; e n. 7403/2013). Ciò, purché il comportamento del lavoratore costituisca pur sempre “il non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni, non potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un’attività del preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse all’espletamento delle sue incombenze” (Cass. n. 11816/16).
L’imputazione delle condotte altrui deve, quindi, essere correlata alla normale estrinsecazione delle attività del preponente e di quelle (oggetto della preposizione) ad esse collegate (anche se tali condotte devono concretizzare violazioni o deviazioni di “verificazione probabile).
In questo quadro, le SU ritengono non plausibile l’indirizzo secondo cui la responsabilità dello Stato (o degli enti pubblici) per il fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) sussiste ed è diretta ed imputabile direttamente all’ente, esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali, cioè, in ragione del rapporto organico.
Mentre risulta vincente la tesi “in base alla quale sussiste la responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti sostanzialmente a quelli in tema di responsabilità del preponente ai sensi dell’art. 2049 c.c., sol che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno”.
Secondo la Corte, infatti, non vi è alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello Stato, escludendo cioè una piena tutela risarcitoria, perseguibile, invece, con la concorrente responsabilità del preponente (pena il contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nonché con l’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (firmata a Roma il 04/11/1950, ratificata con L. 4 agosto 1955, n. 848) e con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (adottata a Nizza il 07/12/2000 e confermata con adattamenti a Strasburgo il 12/12/2007; efficace dalla data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona – ratificato in Italia con L. 2 agosto 2008, n. 130).
Quando cioè gli atti illeciti sono posti in essere da chi dipende dallo Stato o da un ente pubblico, la tutela risarcitoria dei diritti della vittima non può essere meno effettiva rispetto al caso in cui questi siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti.
Più specificamente, precisano le SU, a meno che non vi sia un’esplicita diversa previsione normativa che per la peculiarità della specifica materia, mandi esente da responsabilità l’ente pubblico e mantenga esclusivamente quella dell’agente o viceversa, la responsabilità può essere riferita: a) direttamente all’Ente e questi ne risponderà, altrettanto direttamente, in forza del generale principio dell’art. 2043 c.c.; b) ovvero indirettamente all’Ente, in quanto riconducile a fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di principi corrispondenti a quelli elaborati per ogni privato preponente e desunti dall’art. 2049 c.c.. Ciò, prescindendosi da ogni colpa del preponente e lasciando integra la concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente.
In sintesi, “la concorrente responsabilità della P.A. e del suo dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest’ultimo al di fuori delle finalità istituzionali di quella, deve seguire, in difetto di deroghe normative espresse, le regole del diritto comune”.
Pertanto, lo Stato o l’ente pubblico risponde del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l’esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici.
In questa circostanza, è applicabile la disciplina della responsabilità extracontrattuale, con:
a) accertamento del nesso causale (e relativa elisione del nesso in ipotesi di fatto naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sé solo idoneo a determinare l’evento) ed applicazione della regola generale di cui all’art. 1227 c.c., in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato (v. Cass. ord. nn. 2480 e 2482 del 2018);
b) una sequenza fra premesse e conseguenze rigorosa e riferita “a quelle tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di oggettivizzazione ex ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo – anche se implicante violazioni o deviazioni od eccessi in quanto anch’esse oggettivamente prevenibili – di attività rese possibili solo da quelle funzioni, attribuzioni o poteri”;
c) necessità che il preponente abbia la possibilità di raffigurarsi ex ante quali componenti potenzialmente pregiudizievoli e quali effetti delle attività compiute dai preposti siano prevenibili o possano essere tenuti in adeguata considerazione nell’organizzazione della propria attività e nei poteri conferiti al preposto (v. Cass. pen. n. 13799/2015).
In conclusione, sono fonte di responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente (pur se devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del potere di agire), purché si tratti di condotte:
– legate al preposto da un nesso di occasionalità necessaria (fermi restando i principi in tema di elisione del nesso causale in ipotesi di caso fortuito o di fatto del terzo o della vittima di per sé solo idoneo a reciderlo e di quelli in tema di riduzione del risarcimento in caso di concorso del fatto almeno colposo di costoro);
– “raffigurabili o prevenibili oggettivamente, sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell’esercizio del conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti”.