Il datore di lavoro che ponga in essere un comportamento intenzionalmente persecutorio e reiterato nei confronti di un dipendente non è esonerato da responsabilità sulla base dell’affermazione apodittica che il dipendente medesimo è affetto da una malattia psichica.

 Nota a Cass. (ord.) 4 giugno 2019, n. 15159

 Flavia Durval

Con riguardo alle condizioni in cui si svolge la prestazione di lavoro è configurabile una responsabilità datoriale nell’ipotesi di mobbing o di straining.

Il primo fenomeno (mobbing)  richiede la compresenza di un elemento oggettivo, che si concretizza in una pluralità continuata di comportamenti dannosi interni al rapporto di lavoro, unitamente ad una condotta soggettiva caratterizzata dalla presenza di un intendimento persecutorio nei confronti della vittima (v. Cass. n. 12437/2018 e Cass. n. 26684/2017);

Il secondo (lo straining) costituisce una forma attenuata di mobbing, e concerne comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente (si pensi alla dequalificazione), anche se manca la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. n. 18164/201, annotata in questo sito da M. BONI, Straining e risarcimento del danno) o le stesse siano limitate nel numero (Cass. n. 7844/2018, annotata in questo sito da P. PIZZUTI, Mobbing e straining), ma producano comunque effetti dannosi rispetto all’interessato.

In ambedue le ipotesi (che s’innestano nell’art. 2087 c.c.) la responsabilità datoriale:

–  si pone in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. n. 16256/2018; o condotte che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. n. 9901/2018). Non è però configurabile una responsabilità quando “i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa” (Cass. n. 3028/2013) o “tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili” (v. Cass. S.U.  22 febbraio 2010, n. 4063 e Cass. S.U. 11 novembre 2008, n. 26972);

– può derivare sia da inadempimenti del datore di lavoro che da comportamenti che, se singolarmente valutati, siano “astrattamente legittimi o relativi ad altrimenti normali conflitti interpersonali, rispetto ai quali è l’intenzionalità (vessatoria o stressogena) a qualificare l’accaduto come illecito contrattuale diretto (ove il datore di lavoro sia autore o partecipe della dinamica vessatoria) o indiretto (se siano altri lavoratori a tenere il comportamento illegittimo ed al datore si possa imputare di non averlo impedito)”.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (ord. 4 giugno 2019, n. 15159), la quale ha precisato che l’eventuale inadempienza del lavoratore, causata di una prestazione insufficiente, legittima il datore di lavoro non a porre in essere comportamenti illeciti, ma solo ad adottare le opportune misure disciplinari; e che non è necessario, ai fini della responsabilità datoriale, che l’intenzionalità alla base dei fenomeni mobbizzanti si radichi esclusivamente in una “privata ostilità tra i superiori ed il lavoratore”, poiché non rileva quale sia l’origine motivazionale dei comportamenti adottati dal datore di lavoro, essendo sufficiente il manifestarsi, dal punto di vista del coefficiente soggettivo, “di un «mero intento vessatorio» o stressogeno” sia che si concretizzi in modo diretto (con il datore di lavoro autore e partecipa della dinamica vessatoria) sia che si attui in modo indiretto (come quando sono gli altri lavoratori a tenere il comportamento illegittimo ed al datore si possa imputare di non averlo impedito).

In quest’ottica, i giudici cassano la sentenza della Corte di merito (App. Ancona n. 236/2014) che, allo scopo di giustificare l’impossibilità datoriale di evitare il pregiudizio, aveva fatto leva su “una notoria incapacità di chi sia affetto da malattia psichica di percepire l’effettiva realtà dei rapporti interpersonali”. Tale ragionamento, secondo la Cassazione, risulta viziato, ex art. 2087 c.c., in quanto esclude la responsabilità datoriale per l’impossibilità di impedire l’evento (ovverosia il danno consequenziale alle condizioni lavorative) a causa, per l’appunto, di una “notoria” malattia psichica del dipendente.

Ciò, poiché, come rilevano i giudici di legittimità, è possibile evocare l’esistenza di un fatto notorio nella asserita incapacità di percepire l’effettiva realtà dei rapporti interpersonali in capo a chi sia affetto da malattia psichica, “solo in quanto si possa parlare di fatti o anche regole che siano pacificamente acquisite al patrimonio di cognizioni dell’uomo medio, ovverosia che risultino acquisiti alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili” (Cass. n. 22950/2014; Cass. n. 6299/2014; Cass. n. 16959/2012). Mentre, non possono ritenersi tali le valutazioni che, “per la specificità scientifica e l’assenza di un’acquisita tangibilità oggettiva diffusa, necessitino, per essere formulate, di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi”.

Sicché, l’affermazione della Corte territoriale, secondo cui vi sarebbe un “nesso addirittura notorio, tra una generica malattia psichica e la capacità di affrontare le relazioni interpersonali, al punto di ingenerare un’impossibilità datoriale di porre rimedio allo scaturire dal lavoro di un danno per il lavoratore interessato” è del tutto apodittica, non riportabile ad una regola o ad un fatto di comune esperienza e si colloca come tale al di fuori dell’ambito di cui all’art. 115, co. 2, c.p.c.

Allo stato, infatti, conclude la Corte, le conseguenze interpersonali o socio relazionali delle malattia psichiche appartengono, “al patrimonio tipico delle conoscenze e degli apprezzamenti scientifici dell’ambito specialistico medico-legale e psichiatrico, palesemente non surrogabile da valutazioni, consequenzialmente sommarie e grossolane, del c.d. quisque de populo”.

Mobbing: responsabilità datoriale e notoria malattia psichica del dipendente
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